La gabbia dorata (La Jaula de Oro), regia di Diego Quemada-Diez. Con Brandon López, Rodolfo Domínguez, Karen Martínez, Carlos Chajon. Spagna/Messico. Presentato a Cannes 2013 a Un certain regard, dove ha ottenuto il premio Un certain talent per il cast. Nei cinema da questo weekend.
Tre ragazzini e una loro coetanea in fuga dal Guatemala, con il sogno di raggiungere il paradiso americano. Ma prima dovranno passare attraverso quell’inferno che è il Messico, tra bande armate e poliziotti che sono peggio dei criminali. Un altro esempio di quel cinema neo-neorealista che ha in Ken Loach il suo riferimento. Premiato a Cannes a Un certain regard. Voto tra il 6 e il 7
Un ragazzo e una ragazza e un loro amico, sì e no tredici anni a testa, decidono di lasciare il loro miserando viaggio guatemalteco, di attraversare il Messico con ogni possibile mezzo e di raggiungere il presunto paradiso americana, al di là della presidiatissima Frontera. L’inizio di un’odissea per Juan, Sara e Samuel. Per meglio sfuggire al rischio di stupri et similia lei si traveste da ragazzino facendosi chiamar Oswaldo, e poi via, verso il Messico e los Estados Unidos. Si aggiungerà strada facendo un ragazzo indio, Chauk, che non sa parlare spagnolo e dagli stessi diseredati considerato un selvaggio, un paria relegato all’ultimo gradino della scala sociale. Un escluso tra gli esclusi. Il capetto del gruppo, Juan, uno che al comando ci tiene, non lo vede di buon occhio, ma a Chauk si affeziona la ragazzina, e finiranno tutti col compattarsi e l’affrontare insieme quello che li aspetta. Se l’America è il paradiso sognato, il Messico è l’inferno sicuro, l’inferno su questo mondo. Predoni, stupratori, ladri di ogni possibile piccolo o grande bene, bambini e ragazzini compresi (da avviare al narcotraffico? da trasformare in schiavi sessuali?). Bande armate pramilitari padrone di interi pezzi di territorio, esercito e polizia violenti e corrotti come e e più dei criminali che combattono. Il Messico visto qui e, ultimamente, in molti altri film, sembra il posto peggiore del mondo. Penso al potente Heli di Amat Escalante, premiato a sorpresa ma giustamente a Cannes 2013 per la migliore regia. Penso anche a Le belve di Oliver Stone e a Cani sciolti con il duo Washington-Wahlberg. Non c’è pietà per nessuno, in quella landa desolatissima. Dove il nostro quartetto di ragazzini, viaggiando sui tetti dei treni come gli hobos nell’America della grande depressione, dovrà – in quello che è insieme un percorso iniziatico e di formazione alla vita adulta e al mondo – vedersela con mostri umani, inoltrarsi in incubi fatti realtà. Qualcuno sparirà, qulcuno morirà, qualcuno sopravviverà, in un finale che sarà comunque amarissimo. Sulle prime l’impressione è che si tratti di un esempio di neo-neorealismo cinematografico, con la solita camera mobile a catturare ogni moto e pulsazione di corpi e anime, fotografia sporca come in un found footage, poi ci si rende conto che La jaula de oro è film tutt’altro che naïf e primitivo, che il suo stile immediatista inganna e depista, che ci sta dietro una solida costruzione drammaturgica e una regia robusta e consapevole dal progetto assai chiaro e sempre coerentemene perseguito. Il massimo dell’artificio che finisce col presentarsi come perfetto calco della spontaneità, senza ovviamente esserlo. Sta in questo, nell’aspirazione malcelata al manifesto e alla denuncia, nel manierismo della miseria e degli stracci, nella dimostratività di una storia fin troppo esemplare, il limite di un film onesto e coinvolgente, che non si fa dimenticare presto. Pensi che il regista sia un esordiente, invece macché, scopri che ha fatto da assistente di Ken Loach in film come Bread and Roses, La canzone di Carla e Terra e libertà. E capisci che La Jaula de Oro è un altro prodotto di scuola Loach, influenzato dal suo cinema come decine e decine di cose di giovani autori che si vedono in giro per i festival.
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