L’evento del giorno, ovvio, è la proiezione di Her, stamattina alle 9 alla sonnolenta platea di accrediti press. Converrà ricordare ai molti entusiasti che il film non arriva in prima mondiale, ma dopo un transito al New York Festival. Subito dopo il film di Spike Jonze c’erano due proiezioni stampa sovrapposte che ti costringevano a scegliere. Alle 11,15 Song’e Napule dei Manetti Bros. (fuori concorso), alle 11,30 il portoghese La vita invisibile – A vida invisivel (in concorso). Ora, un festival come questo che non ha moltissimi titoli da esibire – non siamo alle centinaia di Berlino o Cannes – potrebbe benissimo mettere a punto un calendario di press screening che non ti metta di fronte all’aut aut. In ogni caso io, che i Manetti non li reggo, anche se qui a Roma son venerati quali numi tutelari del cinema locale (dopo il loro Paura ho deciso di darci un taglio), sono andato a farmi del male con il cinema lusitano. Che si sa, è sempre ostico, penitenziale, scabro. La vita invisibile conferma in pieno la fama, due ore e cinque minuti di tristezze e anoressie emotive che han fatto scappare un bel po’ di giornalisti dalla sala Petrassi. Io, che adoro certo cinema austero, son stato tra i pochi ad applaudire. Poi alle 14,45 tutti alla conferenza stampa con Spike Jonze, Joaquin Phoenix e Rooney Mara (no Scarlett Johansson, data però sul red carpet alle 18,45: ci sarà?). Io, che Phoenix l’avevo visto l’anno scorso a Venezia alla press conf. di The Master scazzatissimo e catatonico – mutismo assoluto, un paio di uscite dalla sala per pipì o altro – mi aspettavo una replica dell’esibizione. Invece macchè, ti arriva un Joquin tutto allegro, con capello lungo e fluido e l’aria rilassata e voglioso di battutacce e scherzi. Così la conf. si è tramutata in uno sghignazzante show, con interventi più seri di Spike Jonze (molto elegante, di eleganza non formale e décontractée) e di Rooney Mara, sempre un po’ algida e puntuta (anche a Berlino per Side Effects era stato un po’ regina delle nevi). Domande tremende, come quasi sempre alle maledette conferenze stampa, l’inferno vero dei festival. Finché una nota giornalista non ha smosso le acque dicendo chiaro e tondo che Her è il più bel film del festival, e dunque onore e rispetto a chi questo film l’ha portato. Figuriamoci, all’uscita tutti a indignarsi perché ha osato spezzare una lancia a favore di Marco Müller, che è cosa politicamente scorrettissima e che il bon ton sconsiglia. Qui pare che la parola d’ordine sia parlare male, malissimo del festival, lamentandosi della disorganizzazione e della qualità dei film e di tutto. E a lamentarsi sono anche molti romani, giornalisti e non. Il che francamente non lo capisco, un po’ di orgoglio capitolino, sant’iddio. Questo RFF avrà i suoi difettacci, ma perché sputarci sopra con tanta acrimonia? Ieri ho sentito perfino una signora di qui lamentarsi per la enorme fila al film di Veronesi: “Cosa vuole – mi diceva – siamo a Roma”. Esempio da studiare di odio si sé romano.
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