Recensione. JOBS: il biopic del signor Apple non è poi così brutto come ce l’avevano dipinto

Ashton Kutcher è Steve Jobs: molto somigliante

Ashton Kutcher è Steve Jobs: molto somigliante

Jobs, regia di Joshua Michael Stern. Con Ashton Kutcher, Matthew Modine, Dermot Mulroney, Ahna O’Reilly, Josh Gad, J.K. Simmons, Lukas Haas, Eddie Hassell, Ron Eldard, James Woods, John Getz, Lesley Ann Warren.

Si comincia nel garage

Si comincia nel garage

Se n’è parlato malissimo dopo il mezzo disastro al box office Usa, eppure questa (parziale) biografia di Steve Jobs si lascia guardare. Jobs studente hippizzante, Jobs che ha la visione del personal computer per tutti, Jobs che nel garage di casa realizza il suo primo prodotto. L’ascesa irresistibile, poi la caduta con l’estromissione da Apple, poi la riconquista. Un film che è l’equivalente dei molti libri usciti sul signor Apple dopo la sua morte e venduti a milioni di copie nel mondo. Girato in uno stile no frills, senza azzardi e invenzioni, comunque un utile ripasso di una storia esemplare tra secondo e terzo millennio. Vedibile. Voto 6 e mezzo_
Dopo il mezzo disastro al box office americano erano arrivate qui in Italia cronache tremende del film e commenti acidissimi. Invece, questo biopic del padre fondatore (per la precisione, co-fondatore) di Apple è un po’ meglio di come ce l’avevano dipinto. Proprio vero che bisogna vedere, annusare, toccare con mano i film, anziché pronunciar sentenze anticipate e redigere stroncature per sentito dire. Intendiamoci, la confezione è classico-tradizionale fino alla piattezza, si parte con Steve Jobs che presenta al mondo l’iPod e poi si va indietro per flashback più o meno lineari, secondo un modulo narrativo senza troppi azzardi. La regia bada all’onesta confezione, tant’è che si pensa subito a certe biografie televisive di un paio di decenni fa realizzate per un pubblico che non voleva troppi pensieri. Ma il signor Jobs è raccontato senza toni agiografici, certo con rispetto, però mettendo in luce anche il suo lato dark, l’ossessività nel perseguire i propri sogni e desideri, la spietatezza verso i collaboratori, anche quelli della prima ora, l’ingratitudine, l’egolatria. Tratti che lo apparentano a un altro gigante del nuovo mondo tecnologico, il Mark Zuckerberg di Facebook così come ce l’ha raccontato il piuttosto antipatizzante The Social Network di David Fincher. In due ore e qualcosa assistiamo all’incubazione del progegto Apple, ai primi successi locali e limitati, alla sua affermazione su scala planetaria. Con un Jobs allo statu nascenti ancora studentello al campus e tentato dalle sirene hippizzanti-frikkettone del tempo, tant’è che non si risparmia il solito viaggio in India dal guru e le esperienze con l’Lsd (è la parte più goffa e imbarazzante, con scene che rifanno malamente Hair di Milos Forman). Subito dopo però spunta nel giovane Steve la voglia di fare business, un american dream che consiste nel metter a punto un personal computer (e qualcuno gli obietta: ma Steve, chi vuoi che abbia voglia di tenersi in casa un computer?). Come vuole la mitologia della Silicon Valley, si comincia nel garage di casa (Jobs è stato adottato da una brava coppia californiana e solo molto più avcnti saprà di chi è figlio). Poi i primi finanziatori, poi la fondazione della Appale, e intanto l’ego del nostro cresce in proporzione al successo. Finché non arriva la crisi e mentre lui si ostina ossessivamente a progettare e riprogettare un nuovo prodotto che non riesce mai a concretizzarsi, lo estromettono con un golpe dal consiglio di amministrazione dalla sua azienda.Una parte, questa, non chiarissima che avrebbe abbisognato di una qualche spiega in più. Ascesa e caduta. In proprio SJ tenterà altre strade, compresa una cosa chiamata Pixar. Si riapproprierà della Apple, e qui il film finisce, senza affrontare gli anni Duemila, quelli di innovazioni di prodotto clamorose come iPod, IPhone, iPad, senza affrontare gli anni della malattia. Un  sequel è in agguato? Stiamo a vedere. Intanto si può anche comprare il biglietto per questo Jobs, non son soldi buttati via. Il film in fondo non si discosta molto da quelle biografie che son state sfornate, e vendute a milioni di copie worldwide subito dopo la scomparsa di Steve Jobs e la sua immediata santificazione. Biografie che son servite a inculcare nei venti-trenteni la leggemda dell’uomo Apple e a fare un modello di riferimento global-generazionale. Letture che una volta si sarebbero definite da treno. Ecco, anche Jobs è un prodotto da consumare in fretta, per farsi un utile ripasso su quel che è stato uno dei nomi feticcio a cavallo tra secondo eterzo millennio, ma non del tutto inutile. Ashton Kutcher, anche produttore, è assai credibile come Jobs e la somiglianza è a momenti sbalorditiva. Anche bravino, suvvia, e sarebbe ora di prenderlo un po’ più sul serio, senza trattarlo da eterno bamboccione ed ex toyboy di Demi Moore o da twitterista compulsivo e seriale.

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