Il passato è nei cinema da giovedì 21 novembre. Ripubblico la recensione scritta lo scorso maggio a Cannes dopo la presentazione del film al festival (in concorso). La protagonista Bérénice Bejo ha poi vinto il premio come migliore attrice. Il passato rappresenta l’Iran nella corsa all’Oscar per il migliore film in lingua straniera. Le Passé (Il passato), un film di Asghar Farhadi. Con Bérénice Bejo, Ali Mosaffa, Tahar Rahim, Pauline Burlet, Elyes Aguls, Sabrina Ouazami, Babak Karim, Valeria Cavalli.
Anche se lontano stavolta dal suo Iran, Asghar Farhadi conferma di essere un autore di livello massimo. Lo aveva mostrato in Una separazione, lo mostra in questo Il passato girato a Parigi. Anche qui si parte da un divorzio per scoperchiare segreti, simulazioni, bugie, mezze verità, inganni e controinganni. Tutto in famiglia. Tutto o quasi girato in qualche interno, eppure avvincente come un thriller e grandiosamente epico: un colossal dell’anima. Voto tra il 7 e l’8
Si temeva che la lontananza da Teheran potesse condizionare l’iraniano Asghar Farhadi e depotenziarne le qualità mostrate nel magnifico Una separazione, vincitore alla Berlinale, vincitore di due Oscar, uno dei più bei film degli ultimi anni, un capolavoro di scrittura. Invece Le Passé, Il passato, girato in Francia con capitali francesi e con molti attori francesi, conferma in pieno la sua taglia di autore massimo. Film che non ha per niente deluso, anzi ha convinto tutti ed è al momento in cui scrivo (sabato 18 sera) il più palmabile tra quelli visti in compétition. Cerco manca ancora una settimana di corsa, e molte cose molto attese sono ancora da vedere, ma credo sarà difficile in sede di palmarès ignorare Il passato. Molte le analogie e le affinità con Una separazione. Anche qui c’è di mezzo un divorzio, anche qui si entra in una famiglia dalla apparente normalità per scoperchiarne man mano segreti, doppifondi, antri bui, e grovigli quasi inestricabili. Un viaggio nelle esistenze e nelle anime appassionante come un thriller, perché Farhadi conosce come pochi oggi l’arte dello storytelling, della narrazione tesa e sempre aperta a rivelazioni, capovolgimenti, colpi di scena. Con il dono di trasformare un qualunque interno di famiglia in un ring e in un terreno di scontri grandiosi, e di saper costruire dialoghi che sembrano in presa diretta dalla vita da tanto suonano credibili. Ahmad torna a Parigi dall’Iran dopo molti anni per presentarsi davanti al giudice e divorziare dalla moglie francese Marie. Tutto è pronto, si tratta solo di una pratica burocratica da sbrigare. Così almeno sembra, perché come sempre in Farhadi il semplice è solo il primo passo verso il complesso, in una sorta di piccola teoria delle catastrofi applicata al vivere quotidiano, per cui da un fatto qualunque, da una frattura minima si innesca una reazione a catena che porta a esiti imprevedibili. Questo era l’implacabile congegno narrativo di Una separazione, e questo è anche in Le passé. Ahmad viene ospitato da Marie nella sua casa fuori città, con giardino intorno e vista su binari e treni che sfrecciano. È lì, in quell’interno, e anche un po’ inferno, che ha a che fare con le due figlie avute da Marie dal primo marito, Lucie, adolescente, e la più piccola, Léa. Ma c’è anche il nuovo compagno di Marie, Samir, e suo figlio Fouad. Le pedine sono disposte sulla scacchiera, e da lì comincia la partita orchestrata da Farhadi. Il piccolo Fouad non sopporta quella casa, non sopporta che il padre stia con Marie, non sopporta Marie. Lucie è angosciata dall’idea che la madre sposi quello che lei considera un intruso. Ma il vero non-detto, il mai-detto, eppure fantasma presente e incombente, è la moglie di Samir, in coma in ospedale dopo un tentativo di suicidio. Perché l’ha fatto? Quale verità, o quali verità, sono nascoste dietro a quella che tutti, Samir in testa, liquidano come depressione? Inganni e controinganni, mezze verità e mezze bugie, residui di mistero e di inespresso anche dopo le rivelazioni più scioccanti, o gli scontri verbali più cruenti. Tutto è incerto, tutto può essere verità o simulazione. Fino all’ultima scena. Una partitura a più personaggi e a più voci che ti ingoia, ti risucchia dentro e non ti molla più. Se il film ha un difetto, è quello di essere troppo lungo e, nelle rivelazioni finali, un po’ macchinoso e artificioso. C’è una storia di email un po’ troppo contorta per essere completamente credibile. Ma sono increspature sulla superficie di un film bello e importante. Bérénice Bejo, la spigliata starlet di The Artist, qui si fa carico di un personaggio complesso e pieno di ambiguità fino alla sgradevolezza e lo fa con una maturità che non ci si aspettava. In corsa per il premio come migliore attrice. Gli altri sono perfetti (Farhadi è anche un eccellente direttore di attori): Ali Mosaffa è Ahmad, Tahar Rahim è un Samir inafferrabile, sfuggente, forse il personaggio più stratificato del film. Un attore in enorme crescita, Rahim (lanciato anni fa proprio qui a Cannes da Un prophète di Audiard), visto oggi anche in un Grand Centrale di Rebecca Zlotowski proiettato a Un certain regard.
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