Torino Film Festival: FRANCES HA (recensione). Arriva – via Berlino – uno dei migliori film del 2013

Frances Ha, regia di Noah Baumbach. Con Greta Gerwig, Mickey Sumner, Charlotte D’Amblose. Nella sezione Festa Mobile.still2Già trionfatore alla Berlinale, già ottimamente piazzato in America al box office specialty (quello del cinema indipendente), Frances Ha approda a Torino fuori concorso. Meraviglia in una New York in bianco e nero che guarda parecchio a Woody Allen, ai Coen e alla Nouvelle Vague. Frances, precaria in tutto (lavoro, amori, casa), pattina sull’esistenza in cerca di sè. Come una Annie Hall contemporanea. Ma più irrisolta, più goffa, più straziante. Gran film. Voto 8+still1E’ impressionante la quantità di film delle vari sezioni di questo Torino Film Festival (concorso compreso) già presentati e visti in festival precedenti, Cannes, Berlino, Londra, perfino San Sebastian. Che dire? Che da una parte il TFF svolge una funzione utile riproponendo cose bellissime e imperdibili date altrove, e che in Italia difficilmente arriverebbero, penso a film straordinari come L’image manquante, vincitore a Cannes a Un certain regard, e a L’ultimo degli ingiusti di Claude Lanzmann, uno dei cinque titoli massimi di questo 2013, e non si esagera, pure quello proveniente da Cannes. Dall’altra parte però questo eccesso di già visto rischia di compromettere l’immagine e lo status del TFF. Una rassegna cinematografica, piaccia o meno, si qualifica e sale nel rango internazionale per la quantità di titoli nuovi che propone e scopre, per le anteprime mondiali, per la capacità di fiutare e lanciare inediti che faranno il giro del mondo. Dà da oensare che tra i titoli visti finora qui in concorso ce ne siano un bel po’ già presentati altrove, Le Démantèlement alla Semaine de la Critique a Cannes, Blue Ruin addirittura sia a Cannes (Quinzaine) sia a Locarno, Pelo Malo a San Sebastian, dove ha pure vinto. Ho l’impressione che stavolta si sia preferito andare sull’usato sicuro, forse per mancanza di risorse adeguate, o chissà per quale altro motivo, che mi piacerebbe sapere. Torino deve decidersi, se porsi come contenitore ricco e interessante dei migliori film già presentato tra Europa e America, come compilation di alto livello, o mantenersi nello spazio difficile, sempre più occupato e periglioso dei festival che scpprono-impongono il nuovo. Un riciclo, benché di lusso, è anche questo Frances Ha, presentato alla Berlinale lo scorso febbraio e subito acclamato dalla critica anglofona, risultando poi uno dei maggiori successi allo specialty box office Usa. Da Berlino non avevo avuto il tempo di scriverne, l’ho rivisto l’altro giorno qui, e devo dire che si è confermata l’impressione che ne avevo avuto allora. Frances, una ragazza sola e insicura e indecisa a tutto in una New York fotografata meravigliosamente in bianco e nero e sacralizzata a città-feticcio. Incontri che si fanno e disfano e sbriciolano in pochi giorni, in poche ore, come in un giro di valzer, pochi i legami che resistono, e anche quelli non senza fragilità e crepe. Come un gran ballo di figuranti in cerca di un ruolo, del sé autentico, dell’autorealizzazione (miti assai contemporanei), del successo, preferibilmente in campi come arte e varie creatività. Frances ha le punte nevrotiche e insicure di Annie Hall, di cui sembra una reincarnazione qualche decennio dopo. Tutto, del resto, sembra molto Woody Allen-style. Ma è un’impressione di superficie. Il regista Noah Baumbach – già autore di Il calamaro e la balena e Greenberg, già cosceneggiatore con Wes Anderson per Steve Zissou e Fantastic Mr. Fox –  ci dà, sotto l’apparenza di un film di garbo e perfino di leggiadria, sotto la squisitezza della confezione, sotto l’impeccabilità del gusto e dello stile, un ritratto inquietante e a modo suo fosco di un’esistenza solitaria. Frances è una perdente, diciamo pure una sfigata, la sua storia con il ragazzo dell’inizio si sfalda e lei si ritrova senza casa, vagando da un appartamento all’altro, da un divano all’altro ospite più o meno desiderata (e il film si articola in capitoli che hanno per titolo i suoi vari indirizzi), vorrebbe fare danza, danza contemporanea, e in effetti lavora in una compagnia, ma la espellono dallo spettacolo che si sta preparando, la confinano in amministrazione, solo alla fine troverà la sua strada, insegnare danza ai bambini e creare coreografie per loro. Cinema di conversazione e situazione, che nasce dai personaggi e dalle loro traiettorie, dalle parole e dal non-detto. Baumbach guarda clamorosamente a Rohmer e al suo marivaudage, omaggia con il bianco e nero e con i movimenti di una cinepresa prensile la Nouvelle Vague. Ma se c’è un cinema affine a questo è in realtà quello dei Coen. Frances, la eternament sconfitta, nel sua straziante goffaggine e arrendevolezza ci ricorda il protagonista segnato da Dio di A Serious Man o il Llewyn Davis dell’ultimo film dei due fratelli. Frances si sbatte, cade e risorge, deve perfino fare i conti con un piccolo tradimento della sua migliore amica dai tempi del college Sophie (è Mickey Sumner, figlia di Sting e Trudie Styler, bravissima, una sorpresa in un parte da giovane Susan Sontag), torna dai genitori a Sacramento, fa un inutile viaggio cartolinesco da sola a Parigi. Poi sì, ce la farà, ma noi non riusciremo mai a dimenticare quel suo goffo ballare da sola, segno tangibile e commovente della sua inadeguatezza al mondo com’è. Greta Gerwig, regina del cinema indie e in particolare di quella sua declinazione che è il mumblecore, domina il film, è il film, in una delle due grandi interpretazione indie-americane di questa stagione insieme alla Julie Delpy di Before Midnight (anzi tre: c’è anche la Brie Larson di Short Term 12, vincitrice a Locarno). Speriamo che i signori dei Golden Globes e degli Oscar se ne accorgano. (Spiega del titolo. Quando finalmente Frances trova una casa tutta sua cerca di infilare nel citofono la striscia con il suo nome completo, Frances Haliday, ma del cognome entreranno solo le prime due lettere, e sarà Frances Ha).

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