Torino Film Festival. IL TRENO VA A MOSCA (recensione): il sogno dell’Unione Sovietica nei filmati di alcuni militanti comunisti italiani negli anni ’50

Il treno va a Mosca, documentario di Federico Ferrone e Michele Manzolini. Torino 31 (Concorso). TRENO_1Quando l’Urss era il mito dei comunisti italiani. Il treno va a Mosca ci fa vedere attraverso i filmini girati da alcuni militanti romagnoli il festival della gioventù comunista del ’57 nella capitale sovietica. Tanta nostalgia canaglia e però solo vaghi accenni al fatto che non tutto era così perfetto nel paradiso comunista. Che poi il materiale mostrato non è neanche così interessante. Voto 4 TRENO_2Quando i comunisti italiano sognavano la grande madre Unione Sovietica e i piccoli e grandi padri Lenin e Stalin. Erano gli anni Cinquanta, cominciava in Italia il benessere di massa, il reddito cresceva, ma chissà perché molti avrebbero voluto vivere lassù, nella patria del socialismo realizzato, nel presunto, molto presunto, paradiso in terra. Uno dei misteri della storia del novecento, e uno dei grandi misteri della psicologia di massa. Di quel clima, di quella fede che se non era proprio cieca certo non ci vedeva benissimo, di quella stagione è testimone questo (mediocre) documentario. Dove si vedono pezzi di filmini girati tra tre militanti del piccì di Alfonsine, Romagna profondo rossa, partiti nel 1957 verso la capitale del comunismo per il festival internazionale della gioventù, compagni e compagne venuti da ogni parte del mondo a fraternizzare sotto i raggi cocenti del sole dell’avvenire e all’ombra delle sventolanti bandiere rosse. Che dire? Che i filmini non sono granché, ci fan vedere probabilmente solo cose molto ufficiali e consentite “dalle guide e dai traduttori che ci accompagnavano”, insomma mostrano una versione ufficiale. Per carità, la sfilata dei giovani comunisti riserva qualche piccola ghiottoneria, soprattutto con le squadre asiatiche, arabe, africane, una specie di inaugurazione olimpica con molto kitsch real-socialista. La voce narrante, uno dei militanti di Alfonsine che vissero quell’esperienza, si astiene da ogni becero trionfalismo, ma non evita la nostalgia. Non c’è traccia non dico di autocritica, ma nemmeno di una fredda rilettura a distanza di quei fatti. Che bello stare tra giovani, e com’era bella quella ballerina georgiana, e come si andava in giro allegri per Mosca. Solo a un certo punto si dice abbastanza en passant “entrammo in una casa di lavoratori e vedemmo che in una stanza dormivano in tanti, e dormivano sul pavimento, e certo ci restammo male”. Stop, non una parola di più. Capisco che i giovani là convenuti fossero animati da fede assoluta nel comunismo, in Lenin, in Stalin (eppure era il 1957! e Kruscioiv se ricordo bene aveva già rivelato i crimini dello stalinismo!), ma santo cielo, tenere un po’ più gli occhi aperti no? Altra annotazione interessante: “Quando portavamo i filmini in giro per le sezioni della Romagna e parlavamo di come erano ammassati i lavoratori nelle case i compagni non ci credevano, non volevano sentire”. Ah, ecco. Mica per niente Furet a proposito del comunismo ha parlato di colossale illusione. La terza, e ultima interessante annotazione che emerge dal film è la seguente: “Restammo colpiti dalla lentezza con cui lavoravano nelle fabbriche”. Il che la dice lunga sull’efficienza del sistema. Siccome i filmini su Mosca non bastavano a tirare un lungometraggio, si è pensato bene di aggiungere altri girati di un viaggio di militanti romagnoli in Algeria dopo la rivoluzione anticolonialista e l’indipendnza. Ma è lo stesso narratore a dire “non ci capimmo niente, sembrava di stare in un altro mondo”. Purtroppo la lettura dell’Unità non bastava a interpretare e penetrare i molti misteri del nazionalismo e indipendentismo arabo, laico e socialisteggiante sì, ma già covante il germe dello jiadismo. Si conclude con i funerali di Togliatti, per dire che “fu la fine di un’epoca”. Ecco, che senso ha presentare una cosa così modesta in Concorso? Eppure alla proiezione stampa gli applausi son stati calorosi. Mah. Mi chiedo se non era il caso che i due registi ponessero loro qualche domanda al narratore, lo incalzassero un po’ di più, senza limitarsi a prendere atto delle sue parole.

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