La Plaga, regia di Neus Ballús. Con Raul Molist, Maria Ros, Rosemarie Abella, Iurie Tombur. Torino 31 (Concorso).In una Catalogna oppressa dalla calura e invasa da insetti distruttori, si muovono alcuni personaggi dalla vita normalmente complicata. Un coltivatore, un moldavo lottatore e contadino, una matura prostituta, una novantenne indomabile, una immigrata filippina. Film che sofre di una certa anoressia narrativa, ma rigoroso e con una sua nobiltà. Potrebbe vincere qualcosa. Voto 7 meno
Film catalano già transitato nella sezione Forum della scorsa Berlinale e qui approdato in Concorso, facendo peraltro la sua discreta figura. Non sarà un capolavoro, ma rispetto a tante altro visto in competizione è di gran lunga tra le cose migliori. Un piccolo affresco multifocale, una storia a più storie e più personaggi destinati in qualche modo a intersecarsi, tutti compresi e compressi in una unità di spazio. Personaggi che portano, almeno alcuni, i nomi di coloro, che li interpretano, e dunque siamo all’ennesimo esempio di fictionalizzazione documentaristica, si estraggono pezzi di vite dal reale e li si innesta in un racconto, in un’ambiguità e in un’oscillazione tra il vero, il falso, il simulato, il verosimile ormai dilagante nel cinema degli ultimi tempi, e non so quanto sia buona cosa. Prendiamone atto, e senza farci troppe domande teoriche e sulla legittimità-liceità di simili operazioni guardiamo i film per quelli che sono, anzi per come ci appaiono e per quel che ci mostrano. In La plaga siamo nell’entroterra catalano, campi coltivati, un istituto per anziani, qualche casa sparsa, e un caldo tremendo. Che di giorno in giorno cresce, soffoca persone, animali, piante. Sulle colture si abbatte la mosca bianca che ogni cosa divora, ma è tutto il clima a farsi malato, la piaga quasi biblica del titolo. Calura, canicola, afa. Il farmer Raul vede il suo lavoro andare distrutto. Con lui lavora nei campi il buon Iurie, moldavo dai muscoli di ferro che oltre a lavorare durissimamente ogni giorno fa allenamenti tostissimi di lotta (libera o grecoromana, chissà), disciplina di cui è un campioncino. Sulla strada una vecchia prostituta in attesa di clienti che non arrivano mai. Una signora quasi novantenne è costretta a lasciare la sua casa e la sua indipendenza per farsi ricoverare in istituto. L’ultimo personaggio è una filippina che in quella casa si riposo lavora. Non succede granché, succede la vita, ecco. La plaga riesce a comunicare un senso di malessere, di disagio, quella calura opprimente in qualche modo investe anche noi spettatori. Chiaro che la piaga è una metafora, però mica ci interessa scoprire di che cosa. Se gli autori avessero avuto un po’ più di coraggio nel costruire una narrazione, avremmo avuto un film più avvincente, più godibile. Così, siamo nel campo del cinema austero e scarno e volutamente di sottrazione, con il rischio però dell’anoressia. Un po’ troppo politicamente corretto, tutti gli immigrati sono degli angeli, ottimi lavoratori e gente di specchiata onestà. Lo è quel bravo ragazzo di Iurie, lo sono le infermiere-badanti straniere che lavorano alla casa di riposo e che trattano con ripetto e affetto i vecchi pazienti. Sarà, ma io non ho mai conosciuto badanti (quando ho avuto a che farci per motivi di famiglia) dal cuore così d’oro. Sarò stato sfortunato.
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