La moglie del poliziotto (Die Frau des Polizisten) è uscito nei cinema italiani il 28 novembre. Ripropongo quanto ho scritto al Venezia Festival lo scorso settembre dopo la proiezione del film (in concorso). La moglie del poliziotto ha poi vinto il premio per la migliore sceneggiatura. La moglie del poliziotto (Die Frau des Polizisten), regia di Philip Gröning. Con Alexandra Finder, David Zimmerschied, Pia Kleemann, Chiara Kleemann, Horst Rehberg, Katharina Susewind, Lars Rudolph. Germania.
Il tedesco Philip Gröning aveva conquistato il box office europeo con Il grande silenzio, documentario senza parole sulla vita di alcuni monaci certosini. Adesso ha portato qui a Venezia un film di smisurata autorialità, un film attesissimo, anzi il capolavoro annunciato di questo festival. Tre ore in ci la narrazione è frantumata e divisa in 59 minicapitoli. Il tutto per raccontare una storia di violenza domestica. Ma il progetto tradisce in continuazione la sua glacialità, cerebralità, intenzionalità, e il racconto sembra l’illustrazione didascalica di un volantino di una qualche Casa delle donne maltrattate. Troppo esemplare. Troppo pedagogico. Perdipiù le scene con la bambina sono di insopportabile melensaggine. Sorry, non son riuscito a farmelo piacere, nonostante le molte ed evidenti qualità. Voto tra il 5 e il 6
Arrivato a Venezia con le stigmate del capolavoro annunciato, dichiarato imperdibile dal passaparola tra giornalisti e addetti al festival. Il direttore Alberto Barbera nell’intervista rilasciata all’Huffington Post Italia così aveva parlato: “Ci saranno in concorso due film che definirei estremi, in cui viene dissolto il concetto di narrazione cosi come lo conosciamo”. All’intervistatore che gli chiedeva di indicare quali fossero ha precisato: “Jiaoyou di Tsai Ming-Liang, dove c’è solo contemplazione e la profondità sta dentro l’inquadratura, nell’immagine che sei costretto a guardare per molti minuti e ti fa ritrovare la densità del mondo. Qualcosa che lo spettatore di oggi non è più abituato a fare. Idem Die frau des polizisten di Philip Gröning, che ci ha sempre messi di fronte a una sfida. L’ultima volta con un film muto, sull’estraniazione dal mondo. Questo invece fa esplodere il racconto in frammenti che toccherà allo spettatore rimettere insieme come in un puzzle. Centosettantacinque minuti da vedere tutti dall’inizio alla fine. Un film duro, tecnicamente bellissimo”. Parole di peso, che hanno moltiplicato le già elevate aspettative per La moglie del poliziotto. Ecco, a visione avvenuta (ieri sera, in Sala Darsena alla proiezione stampa) mi riesce difficile dare un giudizio. Diciamo che non spenderei la parola capolavoro, e che questo nuovo film di Gröning, l’autore che qualche anno fa con Il grande silenzio aveva colto un insperato successo al box office europeo, mi sembra di molto inferiore nel risultato alle sue evidentissime ambizioni. Forse si porterà a casa il Leone d’oro, e se non quello certo un premio importante, eppure, sorry, non son riuscito a farmelo piacere, pur ammirandolo per molti versi, pur apprezzandone la qualità, la differenza marcatissima, il coraggio. No, non sono state le tre ore a stroncarmi o infastidirmi, a Cannes La vie d’Adèle di Kéchiche durava altrettanto, eppure ne sono uscito leggero ed entusiasta. Gröning frantuma la narrazione, abbandona la linearità e la usuale progressione del racconto, mescola immagini e fatti anche minimi, anche laterali, ad altri centrali, in una decostruzione che ricorda quella attuata da Carlos Reygadas ancora più radicalmente in Post Tenebras Lux. Solo che qui l’operazione è condotta con teutonica meticolosità, con un rigore e una glacialità e un’asetticità da laboratorio. Un progetto attuato a freddo e freddamente, cerebralmente perseguito. Gröning agisce con una tecnica di montaggio e accumulo che potremmo definire pointilliste, pennellate puntiformi che man mano costruiscono la tela, e che qui sono frammenti, coriandoli, talvolta narrativi talvolta antinarrativi, tutti brevissimi, alcuni a camera fissa e a una sola inquadratura di pochi secondi. Molecole apparentemente sconnesse e casuali che solo nel loro insieme indicano una narrazione o almeno alcune tracce, anche se continueranno a permanere pure a film concluso ampie zone oscure e domande senza risposta. All’inizio vediamo una giovane famiglia qualsiasi della piccola borghesia tedesca. Siamo in una bella casa in una zona residenziale in un qualche parte della Germania, un luogo volutamente astratto, a significare i molti luoghi o non luoghi simili, l’habitat di tanto ceto medio. Potremmo trovarci in Baviera, o più a Nord, o più a Est. Interno casa. Lui è un giovane poliziotto tedescamente biondo, e di bell’aspetto, anche gentile all’apparenza. Lei una bella giovane donna. Avranno una bambina, e tutto sembrerà procedere nella più quieta delle normalità. Attenzione: ogni frammento di narrazione viene numerato come capitolo 1, 2, 3 e così via, fino al numero 59, e sembra una di quelle astruserie da film d’autore. Invece, almeno in questo, il film funziona, giacché la numerazione ci consente di isolare ogni singolo frammento e di non connetterli impropriamente in una falsa sequenza, il che ci porterebbe completamente fuori pista e addio ogni chance di comprensione. Il primo segno che qualcosa non va è una bruciatura sulla schiena di lei, Christine. Poi vedremo dei lividi. Ecco, il numero dei lividi sul corpo della moglie del poliziotto è anche l’indicatore del tempo che passa, ci consente di posizionare le scene lungo una linea temporale. L’altro è il grado di crescita delle piantine nel minuscolo orto del cortile. Bruciature. Lividi. In quella normalità abita la violenza, ed è la violenza di lui su di lei. Una donna abusata dal marito. Questo è il nucleo drammaturgico del film, questa la storia, un crescendo di orrore che ricorda un po’ Haneke, ma purtroppo non ne raggiunge il livello e la capacità autenticamente disturbante. C’è un finale tremendo, che ovviamente non dico. A non funzionare non è la lambiccata decostruzione-ricostruzione della trama narrativa, anzi questo è un punto a favore di Gröning, qualcosa che gli consente di creare immagini astratte e perfette, come sospese e aperte (la volpe di notte nella strada, le scene nei boschi, i primi piani del vecchio di cui nulla sappiamo). No, a indebolire il film è la cerebralità dell’operazione, con personaggi la cui fisicità e corporalità sembra assente, come prosciugata e indefinita. E la storia, Dio mio, non ha il minimo scarto di imprevedibilità, così esemplare e didascalica da sembrare l’illustrazione di un volantino di una qualche Casa delle Donne Maltrattate. Sì, lo so, il fenomeno è allarmante ed esteso, ma a un film non si chiede di fornirci un quadro clinico, di raccontarci come in un manuale un caso di psicopatologia, a un film chiediamo una storia interessante. Non bastasse, quando è di scena la bambina il tasso di melensaggine sale ben oltre il livello di guardia. Ma come, si punta al massimo dell’autorialità (con perfino scene di lui e lei che, separati e insieme, guardano in macchina cantando una canzoncina per bambini) e poi con la pargola è tutto un ciu-ciu, e sono decine e decine e decine di minuti, mica una manciata di secondi. Insopportabile. Alla fine molto resta non chiarito, con un’ultima scena che forse rifà il finale di Ordet di Dreyer, forse no. Gröning sarà anche il nuovo maestro del cinema europeo, al suo film magari daranno il Leone, ma io questa Moglie del poliziotto non l’ho proprio amato. Spiacente.
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