Film stasera sulla tv in chiaro: il coreano IL BUONO, IL MATTO, IL CATTIVO (lunedì 9 dicembre 2013)

Il buono, il matto, il cattivo, Rai 4, ore 21,10.
Ripubblico la recensione scritta all’uscita del film.
ilbuono-35635438-1La matta idea di rifare in salsa coreana uno dei capolavori di Sergio Leone e di ambientarlo nella Manciuria anni Trenta. Eppure l’impresa riesce, e alla grande. Il buono il matto il cattivo è un western orientale (se così si può dire, dirò) dove tutto è debordante, immane, fuori misura: la violenza, lo spettacolo, il ritmo. Tre uomini all’inseguimento di un tesoro, e alla fine sarà triello, come in Leone. Ma questo è anche, sottotraccia, un film politico in cui coreani e cinesi regolano i conti con il lontano occupante giapponese.buono1-35586495

Il buono, il matto, il cattivo (Jongheun Nom, Nabbeun Nom, Isanghan Nom), di Jee-Woon Kim. Con Song Kang-ho, Lee Byeong-heon, Jeong Woo-seong, Yoon Je-moon, Ryoo Seung-soo, Song Yeong-chan. Sud Corea, 2008.ilbuono1-35635465
Arriva solo adesso in Italia, con almeno un paio d’anni di ritardo (e comunque un sentito grazie alla Tucker, etichetta indie che ha avuto il coraggio di distribuirlo), questo concitato e fracassone e ipercolorato western sud-coreano che è una dichiarazione di amore infinito a Sergio Leone, al suo cinema, e un quasi-remake letterale del suo Il buono, il brutto, il cattivo. A 42 anni da quel film (quarantadue!) quest’opera picaresca ed epica che ci arriva dal Far East ci fa capire come sia ancora vitale la lontana lezione dello spaghetti western, come ancora quell’avventura influenzi il cinema contemporaneo, come la Trilogia del Dollaro, e il Django di Corbucci, e altri titoli ancora, siano stati follemente amati e continuino a esserlo dalle platee globali e dai cineasti giovani. Non so voi, ma io trovo, da italiano, da cinefilo italiano, da appassionato italiano di Leone e di tutti i nostri western, un che di commovente in questa operazione ribalda e affettuosa messa in atto del regista Jee-Woon Kim. Film ricchissimo, ridondante, dove i molti soldi investiti si vedono tutti, dove la ricchezza è anche nell’eccesso di segni e immagini che saturano lo schermo, fino ad affaticare e sovraccaricare i nostri occhi (a un certo punto ho avuto dei disturbi visivi). Film sfrenato, chiassoso, sfrontato fino al trucidume, che omaggia Leone prendendone e citandone tutti gli elementi più spettacolari e anche di superficie (la violenza enfatizzata, l’iperbole applicata alla quantità di spari, pallottole, fragori, schizzi di sangue), trascurando invece del cinema di Leone la magniloquenza, l’ieraticità, la ritualità, la sottaciuta ma evidentissima tendenza alla sublimazione e anzi al sublime tout-court. Il buono il matto il cattivo è, prima che l’opera citazionista di un cinefilo, l’omaggio appassionato di una spettatore ipnotizzato, conquistato, sedotto irrimediabilmente, come centinaia di milioni in tutto il mondo, dal genere più fortunato e popolare di sempre inventato dalla nostra cinematografia.
Un critico pare americano, pare dopo averlo visto al festival di Toronto, ha ribattezzato il film di Jee-Woon Kim kimchi western, dal nome del piatto-simbolo coreano, e da allora la definizione, il marchio, gli è rimasto addosso in tutti i paesi in cui è stato esportato. Una delle prime scene (non la prima) è l’assalto banditesco a un treno per impadronirsi della mappa di un tesoro nascosto, e curiosamente allo stesso modo incomincia un altro film recente del cinema asiatico, il cinese Let’s the bullets fly, campione di incassi l’anno scorso in patria davanti perfino ad Avatar. Presentato a Locarno lo scorso agosto (e non ancora uscito purtroppo in Italia), è un altro omaggio esplicito a Leone, soprattutto quello di C’era una volta il west. Così il cerchio si chiude. Leone aveva ripreso stili e temi dal giapponese Kurosawa, adesso il suo cinema torna là, in Oriente, riprodotto e duplicato da schiere di suoi epigoni. Il buono il matto il cattivo fin dal titolo riesuma e ripropone a modo suo, tra fedeltà citazionista e voluti tradimenti e travisamenti (e sta in questo scarto, in questo spazio, in questa differenza, in questo spostamento il bello dell’operazione) i tre main characters di Il buono, il brutto, il cattivo. Solo che, ed è una delle belle invenzioni del film, l’azione si sposta dal Sud degli Stati Uniti post-Guerra di Secessione agli anni Venti-Trenta del Novecento, nella Manciuria cinese occupata dai Giapponesi, allora all’apice di quell’espansionismo imperiale che li aveva portati anni prima a inghiottirsi e colonizzare anche la Corea. In questa landa desolata e arida in linea con il paesaggio canonico del western, classico o spaghetti, si muovono i protagonisti con lo stesso obiettivo, mettere le mani su un tesoro sepolto e, prima ancora, sulla mappa indispensabile per arrivarci. Il matto è un bandito da strapazzo, però assai più furbo di quanto non appaia, di nome Tae-goo, il primo che (per caso) si impossessa del prezioso cartiglio disegnato. Cerca di strapparglielo il temibile Manchuria Kid, fuorilegge alla testa di un manipolo di killer, shooter dalla mira infallibile, narciso e dandy, spietato e sadico, cultore dello scontro a fuoco, delle pistole, delle lame, e dell’assassinio come una delle belle arti, e di gran lunga il personaggio più azzeccato e fascinoso del film (iconizzato e connotato da una gran ciocca di capelli neri che gli spiovono sull’occhio destro). È lui il cattivo, naturalmente, mentre la bontà dovrebbe appartenere tutta al cacciatore di taglie Do-won, virtuoso anche lui della pistola, incaricato del recupero mappa dall’esercito indipendentista coreano che si oppone all’occupante jap. Con simili premesse, e con simili personaggi sul campo, si scatena un mirabolante, pirotecnico spettacolo, messo in immagini con virtuosistica abilità tecnica dal regista Jee-Woon Kim. Il cinema orientale, soprattutto quello di Hong-Kong, ci ha abituato da tempo ormai a film ipercinetici, dove la violenza è iperbolizzata e insieme coreografata e ricomposta con brutale grazia, dove le sparatorie, gli scontri, i corpo a corpo oltrepassano ogni realismo per farsi pura astrazione, gioco di forme. Eppure si rimane incantati e soggiogati da questo film coreano, che sembra eccedere ogni eccesso precedente, moltiplicare ciò che già era fuori regola e misura (le pallottole, i pugni, i calci, le sevizie, le armi da fuoco e le lame, i bersagli centrati e abbattuti, le vittime e i killer), affollando lo schermo come poche volte si era visto. L’impressione è che la messinscena sia più rumorosa, materica e meno stilizzata dei massimi lavori corrispettivi made in China e Hong Kong, che il gusto forte coreano si faccia sentire anche qui, che il processo di sublimazione della brutalità stavolta lasci dietro di sè più imperfezioni e più scorie. Nonostante si rimanga senza fiato per la bellezza di alcune parti, altre rimangono come invischiate nel fango, nel sangue rappreso, nei molti umori che colano e sporcano lo schermo. Questo kimchi western non solo è lontano dalla ieraticità del cinema di Leone, ma anche dalla ritualità di molto cinema orientale di oggi e dell’immediato ieri (penso ad esempio a 13 assassini di Takashi Miike). In Il buono il matto il cattivo tutto è terra, acqua, sabbia, tutto è materia solida e bruta, e il realismo assai più marcato. È anche, questo di Jee-Woon Kim, un cinema più ingenuo, più rude, consapevole sì e citazionista, ma non al punto da farsi cerebrale metacinema e rinunciare alla pienezza dello spettacolo-spettacolo. Cinema che travolge ogni resistenza. In due ore assistiamo ad assalti al treno, scontri di bande e perfino di eserciti, duelli, sadismi, efferatezze, torture, inseguimenti in mercati strapieni di ogni merce e ogni umanità, bordelli, locande losche, ancora più losche fumerie d’oppio, tradimenti, riappacificazioni, alleanze, corse nel deserto e nelle città. Fino naturalmente al triello finale, che ripropone quasi filologicamente quello del film di Leone. La sequenza più incredibile: il Buono che da solo sbaraglia a colpi di pistola i giapponesi a cavallo e motorizzati e armati di ogni possibile arma. Non si contano le soggettive delle pallottole, le loro traiettorie in ralenti. Il sottotesto, parecchio interessante, è il fortissimo discorso antigiapponese. Questo è un film in cui i coreani si sono alleati produttivamente con i cinesi, e insieme si sono coalizzati per realizzare un film che è un attacco durissimo al Giappone e ai giapponesi, rappresentati come invasori spietati, carogne invasate di potere, disumane macchine da guerra. La vendetta nazionalistica di cinesi e coreani si consuma anche così, al cinema, con questo western, settant’anni dopo la dominazione subita. Resta, alla fine di Il buono il matto il cattivo, la sensazione di aver assistito a una vendetta politica e a una dichiarazione d’amore per il cinema, e per il cinema italiano. Con una forza, anche un entusiasmo, che noi smagati europei e occidentali forse abbiamo perso, e che solo là, nel continente Asia, oggi è dato trovare.

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