A Spell to Ward Off the Darkness (Un incantesimo per scongiurare l’oscurità) di Ben Rivers e Ben Russell. Con Robert Aiki Aubrey Lowe, Nick Turvey. Musiche: Queenqueg, Robert A.A. Lowe.
Presentato al Locarno Film Festival 2013 (fuori concorso), al Torino Film Festival 2013, a Milano a FilmMaker 2013. Vincitore a Torino della sezione Internazionale.Doc.Lo si è chiamato documentario, ma la definizione gli va stretta. Questo è un film-concept, un film di esplorazione ai confini con la videoart e altro. Tre episodi ambientati nel Nord Europa: una comune tardo hippizzante, il ritorno alla natura di un uomo, un concerto black metal. Cos’è? Un viaggio inziatico? Un’esperienza magica? Tutto questo e niente di questo. Cinema-visione. Cinema-ipnosi. Cinema sciamanico. Con un che di neopagano che inquieta e fa emergere qualche fantasma di troppo. Voto 7
Che cinema è mai questo? Il cinema che si materializza in questo film, intendo. Lo chiamano documentario, e come documentario, con quell’etichetta comoda e un po’ lisa addosso, A Spell to Ward Off The Darkness ha fatto quest’anno il giro di parecchi festival, Locarno in primis, passando per Torino dove ha avuto il premio massimo nella sezione detta per l’appunto Internazionale.doc. Ma se questo è un doc, allora la categoria ha assunto un’elasticità e un’estensibilità infinite, e perfino sospette, arrivando ad inglobare in sé disparate e pure divergenti (cine)esperienze. Spingendosi al proprio punto di esplosione e di non ritorno. Documentario cosa? Continuiamo pigramente a definire tale tutto ciò che non è fictionalizzazione pura o nel quale rinveniamo, o ci pare rinvenire, un residuo di quanto veniva chiamato cinéma-vérité, o un qualche elemento di (presunta) realtà non filtrata e restituita tale-e-quale. È che ormai non si capisce più niente signora mia, grande è la confusione sotto il cielo, ed è difficile dire se ciò sia buona o cattiva cosa. Siamo invasi, i festival ne sono invasi, da soi-disant documentari che sono specchio assai infedele del reale e raccontano invece sempre più delle storie, son sempre più sedotti dallo storytelling, tanto da piegare talvolta i dati fattuali e oggettivi al progetto narrativo dell’autore. Tanto da apparecchiare e predisporre intere sequenze secondo un copione. Problema nuovo e antico, e mi ricordo le arroventate polemiche primi Sessanta intorno a Gualtiero Jacopetti e il suo Africa addio. Tanto per non sbagliare, io questo Un incantesimo per scongiurare l’oscurità – titolo magico e meraviglioso davvero – lo battezzerei in qualche altro modo, mi inventerei per definirlo un’altra categoria. Che ne so, film-concept, perché questo è un film come certi album musicali di una volta costruito attorno a un’idea che tiene ogni parte e tutto connette e spiega (qui l’idea essendo il magico). Un’opera che nasce dall’incontro di due film-maker vicini e lontani, esploratori entrambi dei bordi del cinema, l’inglese Ben Rivers, di formazione più classicamente documentarista, e l’americano Ben Russell, sperimentatore di visioni e del cinema-come-arte. Tutti e due intrigati se ho ben capito dal cinema etnografico (dichiarano difatti come proprio modello di riferimento Jean Rouch). La collisione dei due Ben eccola qui, è questo oggetto cinematografico strano, sfuggente, oscuro e però fiammeggiante e lampeggiante, viaggio nella luce e nell’assenza di luce, forse un percorso iniziatico (ma di chi? verso che cosa? per che cosa?). Cinema sciamanico, stregonesco, grumo pulsante di materiale psichico avvolto da onde mentali, dove il prerazionale stravince sul regno della ragione. Back to Dioniso.
Documentario? ma vogliamo pazziare? Questa cosa è un’altra cosa, guardiamocela e basta, e lasciamo da parte le nostre ansie classificatorie, abbandoniamoci al caos visuale senza pretendere di organizzarlo. Confesso: quando me lo sono trovato di fronte a Locarno, alla proiezione stampa al Kursaal, ho resistito quaranta minuti e poi sono uscito, ed era sì e no la terza volta che mi capitava nella vita (sono un cinefilo e uno spettatore dal forte super ego, doverista, ogni abbandono di sala mi sembra assai sconveniente, una colpa, perfino una diserzione). Solo che A Spell to Ward Off the Darkness, diviso in tre episodi tra loro connessi e sconnessi nel modo che dirò, parte con la cronaca di una comune in un’isola al largo dell’Estonia (Estonia!) che mi ricordava troppo certe analoghe follie e anche certi abomini degli anni Settanta, e non ho retto, sorry. Ma come potevo resistere, io che qualche triste comune l’ho vista davvero, di fronte a povere scene di povera promiscuità sessuale (peraltro più tentata che realizzata)? O nel sentire sproloqui sul riscoprire-se-stessi-nella-natura e altri consimili deliri? No grazie. Così dietrofront. Che poi mi son sentito in colpa, così quando il film dei due Ben è riapparso a Milano a FilmMaker l’ho riacchiappato, e devo dire non senza soddisfazione. Si presenta ai nostri occhi diviso in tre capitoli, Commune, Solitude e Black Metal. Il primo ci fa entrare nella comune di cui sopra, sull’isola estone di Vorsi (mai sentita prima), mar Baltico, tra gente di varia provenienza ma perlopiù nord-europea, tutti fluentemente englishspeaking, di età non giovane, appartenenti a una classe medio-alta intellettuale, architetti, scrittori o aspiranti tali ecc. Con molti incolpevoli bambini trascinati nell’avventura. Chiacchiere, demenzialità varie su energie cosmiche e altre fanfaluche, qualcosa di interessante (soprattutto da parte dell’artista inglese Nick Turvey – marito della regista Joanna Hogg che proprio a Locarno 2013 ha portato in concorso il suo Exhibition – il quale conia nel corso di una conversazione con un comunardo l’interessante categoria di ‘happy pessimism’, pessimismo felice: prendere nota). Il resto son tentativi di un tizio abbastanza spiritoso di attirare nella sua vasca da bagno una bella ragazza (ma non ce n’è) e il racconto buffo di uno che ricorda quella volta che in sauna tutti gli uomini, in cerchio, infilarono il dito nel culo di un altro, in un anello anale tra il magico e il rituale. A legare i tre episodi c’è la comune presenza di un signore senza nome, interpretato dall’artista-musicista newyorkese Robert A.A. Lowe. Dico interpretato, et pour cause. Perché – ed è qui che il presunto statuto documentaristico di Un incantesimo per scongiurare l’oscurità va in pezzi – i due autori l’hanno scelto per fargli vivere, attraversare, recitare realtà che non erano le sue ma quelle da loro progettate. La stessa comune di Vorsi, ha spiegato Ben Russell introducendo a Milano il film, è stata ricreata riproducendo con altra gente un’esperienza che non era possibile filmare. Che casino, ragazzi. Il vero, il falso, il verosimile, il falsificabile. E – scusate se insisto, ma il punto è cruciale – lo chiamano documentario. Ma procediamo. Il tizio, che in Commune pare vagamente interessato alla bioarchitettura, del secondo episodio, Solitude, diventa unico e assoluto protagonista, aggirandosi da neo buon selvaggio tra Rousseau e Thoreau in una selva (finlandese) e assistendo all’incendio della sua baracca. Poi, eccoci alla parte numero 3, Black Metal, con sempre lui, Robert A.A. Lowe, a Oslo sul palco di un club a suonare-cantare (benissimo) invasato, e come posseduto, con un band di heavy-gothic-satanic metal. Sempre Ben Russell ci ha informati a Milano come neppure questa band esista, ma sia stata formata ad hoc pescando da varie formazioni. Ora, di fronte a questo film ogni interpretazione è lecita. È un viaggio mentale. È una libera associazioni di immagini, sogni, incubi e visioni. È il percorso iniziatico di un uomo. È un casino e basta. Propenderei per l’ultima. Questo è un film che va visto lasciandosene ipnotizzare e magari invadere e possedere, mettendo a riposo l’emisfero razionale del nostro cervello (non ricordo se il destro o sinistro). Un’esperienza visuale che, dipende dalla predisposizione di ciascuno, può anche svoltare in esperienza psico-sciamanica, chissà. Poi senti Ben Russell presentare e spiegare il film. Poi leggi sul web le dottissime, contorte interviste rilasciate da lui e da Ben Rivers, ove si parla di magia, ritorno al pagano, destrutturazione di ogni linearità temporale e narrativa (insomma, i tre episodi secondo loro non vanno visti in sequenza, ma come i lati di un triangolo, mah). Secondo Ben Russell i tre pezzi rappresenterebbero pure tre diversi tentativi di utopia-distopia perseguiti dal mondo nostro contemporaneo, e tutti e tre miseramente falliti (dunque: il comunitarismo hippizzante-comunisteggiante, il ritorno illusorio alla natura, la fuga impossibile nella musica più stordente e forse nelle droghe). Però, scusate, se io vado al cinema non voglio ricorrere a un apparato di glosse, note, spieghe per capire quello che vedo. Ciò che passa sullo schermo deve bastare a se stesso e bastare a me, deve sapermi dire in proprio senza bisogno di supporti esterni, sennò che cinema è? L’errore nostro, di fronte a film come Un incantesimo per scongiurare l’oscurità, è di ingabbiare a forza il flusso di immagini in una ferrea maglia esplicativa, e l’errore speculare dei due autori è di insistere con i loro grimaldelli teorici che in realtà poco aiutano a entrare. Io del film mi sono portato a casa certe immagini folgoranti, e tanto mi basta. La sequenza iniziale, lunghissima, ipnotica, dieci minuti a riprendere un’isola nordica, forse un lago immersi nel buio totale, mentre la macchina da presa lentamente si muove a 360 gradi, ruota su se stessa compiendo un cerchio. La casa nel bosco in fiamme (sempre di notte). I primi piani del volto afroamericano di Robert A.A. Lowe biaccato e trasformato in maschera durante la performance metal. La sua passeggiata finale, sempre al buio, e verso il niente. Forse i due Ben volevano trascinarci in un cerchio magico e, come da titolo, invitarci a un sortilegio. Se è così, ci sono riusciti. Se invece volevano farci meditare sui sogni e i deliri dell’uomo occidentale in inutile fuga dai propri fantasmi, no grazie, rimandiamo ai mittenti il messaggio, alquanto ideologico e déjà (troppe volte!) entendu. Più di un brivido riescono a comunicarcelo, non so quanto intenzionalmente, tenendo tutto il film in un clima di neopaganesimo nordeuropeo ferrigno e inquietante, denso di fantasmi e rimandi al passato. Film massiccio, pesante fino alla grevità, mai lieve, mai aereo. Con quei fuochi di notte, troppi, troppi, che a me han fatto venire in mente Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, un pilastro del cinema neopagano (e non solo di quello purtroppo). Forse è per questo che non sono riuscito a voler bene a A Spell to Ward Off the Darkness, pur essendone stato sedotto in più momenti, ed è per questo che non l’ho inserito, dopo molte esitazioni, tra i miei 5o film preferiti del 2013.
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