Recensione. I SOGNI SEGRETI DI WALTER MITTY funziona quando si sbarazza delle scemenze oniriche

TI sogni segreti di Walter Mitty, regia di Ben Stiller. Con Ben Stiller, Kristen Wiig, Sean Penn, Adam Scott, Shirley MacLaine.THE SECRET LIFE OF WALTER MITTYDoveva essere il remake di un vecchissimo film in cui Danny Kaye sognava a occhi aperti un se stesso eroico che compensasse la sua piccola vita di uomo qualsiasi. Invece stranamente il film cui più assomiglia è Apocalypse Now. Un piccolo uomo, travolto dalla grande crisi dell’editoria stampata, si mette sulle tracce di un fotoreporter leggendario finito chissà dove, per salvare se stesso e qualcosa della propria dignità. Questo è il film che ci interessa davvero, di quell’altro (quello dei sogni e dell’innamoramento) non sappiamo che farcene. Voto 6+T
Come remake del classico anni Quaranta Sogni proibiti vale proprio poco, e non si capisce perché Ben Stiller, qui anche regista (come in Tropic Thunder), si sia ficcato in un progetto del genere. In quel remotissimo film del 1947, come questo ispirato da un raccontino di pochissime pagine di James Thurber (ora riedito in una raccolta Bur), la doppia vita dell’uomo qualunque Walter Mitty aveva una sua ragion d’essere narrativa, innescava una qualche trama, perché l’una, quella onirica, si faceva evasione e compensazione di quell’altra, la vita della triste e banale realtà, finché le due finivano con l’intersecarsi e influenzarsi. Ma qui niente di tutto ciò. Qui assistiamo nella prima parte del film a certi piccolissimi sogni a occhi aperti di Walter che immagina se stesso virilmente figaccione ed eroico per fare colpo su una ragazza, evasioni non così originali e nemmeno troppo divertenti. Robucce. Che peraltro poi vengono abbandonate quando il film prende una piega tutta sua, anche interessante, ma che non c’entra più niente con l’inizio di Walter per così dire produttore onirico. Se I sogni segreti di Walter Mitty voleva dirci che attraverso le proprie cavalcate fantastiche e irreali e surreali un qualsiasi uomo riesce a intuire e scoprire il grand’uomo che c’è nascosto in lui e a trovare la forza per realizzarlo, per tirarlo fuori dal proprio profondo, allora fallisce il suo obiettivo. Per fortuna tutto questo, che pure è il nucleo narrativo del racconto di Thurber e del film con Danny Kaye, viene piallato via presto, e forse anche inconsapevolmente, da Ben Stiller, per lasciare il posto a qualcos’altro che ci prende di più, il quadro se non drammatico certo abbastanza deprimente e opprimente di un trenta-quarantenne travolto come tanti oggi dalla crisi economia e sull’orlo del licenziamento. Il quale però, in un soprassalto di orgoglio, si imbarca in un’avventura all’inizio più grande di lui, troppo grande per lui, ma da cui riuscirà a venire fuori vincente e con una stima di sé ristabilita. Dei sognucci alla Danny Kaye non ci importa niente, molto di più invece vedere come una gloriosa testata giornalistica che ha fatto la propria fortuna e si è ritagliato un posto non secondario nella storia della comunicazione con clamorosi fotoreportage finisca nel niente. Divorata dalla crisi davvero epocale (e non si esagera) che sta travolgendo la carta stampata e il giornalismo e il fare giornali così come l’abbiamo conosciuto finora (fino a ieri), per lasciare il posto a un nuovo multimediale ancora oscuro e nebbioso. Walter, lui lavora (ancora per poco, si intuisce) in un antro buio che è l’archivio fotografico del giornale, una caverna di immagini, il deposito e la memoria storica di un giornale che porta il nome della gloriosa testata Life. Pellicole, negativi, stampe. Meraviglie ormai rese obsolete dall’avanzata del digitale, vestigia di un tempo concluso irimediabilmente, e indietro non si torna. Lui a quelle reliquie è legato di un amore assoluto, e una delle cose belle del film è come riesca a trasmettere anche a noi spettatori quell’amore, quell’incanto. Ma nuovi carnefici dal volto ragazzino (come le guardie rosse della rivoluzione culturale cinese, come i giovani khmer invasati) arrivano dalle business school, prendono arroganti il potere, eseguono il loro mandato, che è quello di tagliare tagliare e tagliare per ridurre i costi. Senza pietà e pure ignorando ogni minimo savoir faire e ogni conoscenza del prodotto, e del corpo, su cui stanno lavorando di bisturi, anzi di scure. I colleghi di Walter vengono eliminati uno dopo l’altro, via con gli scatoloni. A lui viene chiesto per l’ultima copertina di Life prima della definitiva chiusura il negativo mandato da Sean O’Connell, il fotoreporter che del giornale ha fatto la storia, il fotografo più bravo, il più temerario di tutti, solo che Walter quello scatto – stando a O’Donnel il suo più bello di sempre – non lo trova più, perso chissà dove. Il fotogramma che dovrebbe chiudere la storia di Life lui non sa più dove sia. Ha solo una possibilità, rintracciare il sempre misterioso O’Conell, andare da lui, farsi ridare una copia dl negativo perduto. Così incomincia l’avventura di Walter Mitty uomo qualunque in giro per il mondo, nei posti più selvaggi, prima la Groenlandia, poi l’Islanda dei vulcani, poi Himalaya. Non dico cosa succede in questo lungo viaggio che è, classicamente, anche una discesa dentro di sé. Dico solo che mi ha stranamente ricordato Cuore di tenebra di Joseph Conrad e Apocalypse Now di Coppola-Milius che da lì deriva. Anche O’Connell, come Kurz, si è rifugiato in culo al mondo, in un punto estremo, per scappare, o forse per trovare un luogo a parte dove il suo smisurato ego potesse espandersi. Walter è l’uomo qualunque che, come il soldatino di Apocalypse Now, si deve misurare con l’Eroe e con il Mito. Scegliere Sean Penn per questo nuovo Kurz dell’obiettivo e del clic era inevitabile, necessario. Nesssuno più di lui, nella sua ombrosità, nel suo porsi attorialmente (e anche fuori dal set) bigger than life, poteva marlonbrandeggiare così credibilmente, e pure narcisisticamente. Stiller quale everyman è perfetto. Kristen Wiig, l’atrice-autrice rivelazione di Le amiche della sposa, è l’oggeto di sogni e desideri di Walter, ed è una donna bella di una bellezza reale, solo che del suo personaggio ci importa poco. Lei, come i sogni iniziali di Mitty, è la porzione di film meno riuscita. Forse perfino contro le stesse intenzione di Stiller, Walter Mitty funziona quando butta via la zavorra onirica e autoingannatoria del personaggio per buttarsi in un’avventura che è soprattutto esplorazione esistenziale, e quando ci mostra che sopravvivere dignitosamente agli strali della sorte ai tempi della Grande Crisi si può. Occhio a Shirley MacLaine quale mamma, adorabile, di Walter.

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