People Mountain People Sea, Rai Movie, ore 1, 30.
Film cinese presentato al Venezia Film Festival 2012, dove poi vinse il Leone d’argento. Se ne parlò molto al festival, per gli imprevisti che disseminarono le sue proiezioni, come racconto in questa recensione scritta allora, e che ripubblico tale e quale.
- Il regista Shangjun Cai con il Leone d’argento a Venezia 2012
Ren shan ren hai (People Mountain People Sea), regia di Cai Shanjun. Con Shen Jianbin, Tao Hong, Wu Xiubo, Li Hucheng. È stato il film sorpresa, annunciato all’ultimo minuto. In concorso nella sezione Venezia 68. Vincitore poi del Leone d’argento.
Annunciato solo all’ultimo momento, proiettato dovo varie vicissitudini (compreso un allarme incendio in sala), è uno dei film più tosti, implacabili e impervi di questa Mostra. Ma alla fine c’è stata la standing ovation per il regista e gli attori.
È stato il film sorpresa, annunciato e rivelato solo all’ultimo momento. Si vociferava, si sperava che fosse il nuovo Brillante Mendoza con Isabelle Huppert e non il solito cinese. Invece, il solito cinese, e a questo punto forse è il caso di smetterla di parlare di sorpresa che tanto sappiamo già come va a finire. Per fortuna Ren shan ren hai si è rivelato uno dei titoli migliori della rassegna, un’opera impervia ma di qualità alta, e dunque va bene così.
Ma questo People Mountain People Sea è diventato anche il film più chiacchierato e interrotto (in tutti i sensi) di Venezia 2011. La prima proiezione stampa doveva essere in Sala Pasinetti alle 9 di mattina, ma è saltata per mancanza della copia, meglio, per mancato arrivo dalla Cina del codice necessario alla proiezione. La sera, alle 19.30 in Sala Darsena, presenti regista e interpreti e il direttore della Mostra Marco Müller (vestito uguale uguale al regista, in completo nero con collo china-style), dopo tre quarti d’ora dall’inizio del film – siamo verso le 20.15 -scatta il panico. Si vede gente precipitarsi verso le porte e aprirle rumorosamente e scappare, si avverte in sala una vaga (molto vaga) puzza di bruciato, ed è immediata la paranoia colettiva. Si parla di incendio, ci si alza, finire al rogo per un film cinese dal titolo impronunciabile e più rigoroso di un Bresson, più lento di un Apichatpong Weerasethakul, pare francamente troppo. Per una mezz’ora gli addetti alla sicurezza perlustrano, salgono scale, smontano pannelli e lmpade, e la risposta è: non è successo niente, no panico. Circolerà poi la voce, mai confermata dai tecnici, di un faretto difettoso. Ci si risiede (intanto Müller è scomparso) e la proiezione riprende. Alla fine chi è rimasto nonostante lo spavento ed è sopravvissuto al più impervio dei film in concorso, è stato ripagato. Questo Ren shan ren hai rischia di essere un grandissimo film, si piazza tra i migliori in assoluto della mostra, ed è una sorpresa vera. Tutti in piedi a circondare e a applaudire entusiasti il regista e gli attori, increduli di una simile accoglienza, soprattutto dopo tante peripezie.
In una Cina rurale e polverosa lontana dalle mille luci di Pechino e Shanghai al povero Lao Tie uccidono il fratello per rubargli la moto. La polizia identifica subito l’aassassino, che però nel frattempo è riuscito a scappare. Lao decide di andarlo a cercare lui, quel bastardo, se ne va giù, in una megalopoli sul fiume tutta grattacielei e ponti sospesi sull’abisso, da un amico o forse un parente, tossico e spacciatore che conosce bassifondi e malavita e potrebbe dunque aiutarlo a identificare il colpevole. Il viaggio di Lao all’inseguimento dell’assassino ci fa conoscere man mano la Cina più sporca e lurida, una Cina senza regole dove regnano la sopraffazione e lo sfruttamento, dove la polizia o è inetta e inefficace o è corrotta. E poi mafia, famiglie sfasciate e derelitte, figli che le madri non vogliono avere vicino. Un universo spaventevole di anime perse, mentre la modernità avanza sempre più aggressiva (assistiamo anche al tossico che si fa di eroina piantandosi la siringa nel pube attraverso i jeans: una roba così non l’avevamo vista neanche nei più tosti film indie americani sui junkies).
Tutto è ripreso dal regista Cai Shangjun con occhio implacabile, nessuna belluria stilistica a ingentilire lo squallora delle persone e degli ambienti, movimenti lenti di macchina o macchina immobile sui volti, in una rarefazione che ricorda il più austero, rigoroso, inesorabile cinema d’autore europeo. Non c’è mai cedimento sentimentale, anche se il calvario del povero Lao Tie è mostrato con una pietas che ricorda quella di Pasolini con il suo Accattone. Sembra non esserci speranza in questo film, e in questa Cina che pare abbinare il peggio del comunismo (l’illibertà) al peggio del capitalismo più selvaggio. Di sicuro non ci sono più illusioni. Lao Tie vien a sapere che l’uomo che sta cercando è scappato al Nord, a lavorare in una miniera illegale. Decide di andarci, si fa assumere anche lui per scoprire la sua preda, starle vicino e colpirla. Il finale sarà oltre ogni immaginazione. Ma prima assistiamo all’inferno della miniera, spelonche e cunicoli neri senza legge e senza diritti, dove chi sgarra viene fatto fuori, una bolgia che neanche la peggior Londra dickensiana della prima, arrembante industrializzazioni. Corpi lerci ed esausti che dormono accatastati come in una Auschwitz cinese.
Sì, tosto, insostenibile, ma ci vogliono anche film così. Film necessari che ti aprono mondi che non sospetteresti, e importanti per il rigore, il coraggio, la radicalità della messinscena. Film non piacioni. In una Mostra che ha fatto vedere molte belle cose, questo Ren shan ren hai secondo me è tra le migliori (vedi classifica), e spero che la giuria se ne accorga.