Un boss in salotto, un film di Luca Miniero. Con Paola Cortellesi, Luca Argentero, Rocco Papaleo. Angela Finocchiaro, Angelo Besentini.
Il regista di Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord continua nello sfruttamento del filone aurifero proponendo l’ennesima storia di confronto-scontro Nord/Sud. In una famiglia altosettentrionale e di molte ambizioni sociali arriva un fratello camorrista agli arresti domiciliari, con prevedibili effetti comici. Il film non va molto oltre l’idea di partenza, però è girato con piglio modernizzante (non così frequente nella nostra cinecommedia), ha un discreto ritmo, soprattutto può contare su Paola Cortellesi e Rocco Papaleo, bravi assai. Voto 6 meno
Euri a milionate in pochi giorni. Un boss in salotto è il successo al box office italico di questo inizio 2014, e l’ennesimo del suo regista, il Luca Miniero già campione di incassi con Benvenuti al Sud (ottimo) e il sequel Benvenuti al Nord (mediocre, anzi proprio brutto, però la gente è corsa lo stesso). Solo Zanone è, dalle parti del nostro cinema, più moneymaker di lui. Al pubblico nazionale e immagino, visti i numeri, anche popolare, in tutta evidenza piace assistere al cinema all’incontro-scontro, anzi più il secondo del primo, tra il nostro Nord e il nostro Sud, ancora di più se messo in scena da autori meridionali. Sarà un modo di esorcizzare la mai risolta questione dell’unità d’Italia, le voglie separatiste di certo settentrione, le nostalgie neoborboniche di certo meridione, i rinfaccia continui, l’integrazione mai davvero avvenuta. Perché un motivo ci dev’essere se il pubblico porta i soldi al botteghino non appena si tratti la cosa (però, intendiamoci, mica in forma di dramma, ma in quella di rassicurante commedia, riducendo la questione dal macro al micro di un qualche interno familiar-paesano). Miniero ormai è specializzato nei confronti da ridere tra l’alta Italia e quella che sta più giù, ha cominciato in tempi lontani e non sospetti con Incantesimo napoletano, con una bambina che, pur nata sotto il Vesuvio, misteriosamente parlava milanese, come certi posseduti che, benché incolti, si mettono a ciarlare in lingue straniere e magari sepolte tipo l’aramaico. La pargola non solo meneghineggiava e lombardeggiava che neanche Wilma De Angelis e la Mabilia, ma pure rifiutava ogni cibo napoletano per buttarsi su panettoni e affini. Figuriamoci i costernati e napoletanissimi genitori. Ebbe una limitata circolazione, pochi lo andarono a vedere, qualcuno lo amò molto, e intanto Miniero scopriva il suo filone aurifero e metteva a punto i mezzi per sfruttarlo. Il meglio nel genere lo ha dato con Benvenuti al Sud, forse perché si trattava di un remake fedelissimo fin quasi allo shot-for-shot del meraviglioso Bienvenue chez le Ch’tis (Giù al Nord) del francese Dany Boon. Venuta meno la chance del ricalco con la seconda puntata – visto che il film di Boon non ha mai avuto un squequl – Miniero ha semitoppato con il confuso e contorto Benevenuti al Nord. Stavolta con Un boss in salotto va un po’ meglio, però l’impressione è che siamo ormai al punto terminale. Il filone aurifero si sta esaurendo, oltretutto a cavalcare la stessa onda e a competere sullo stesso terreno ci si è messo pure Alessandro Siani il quale, dopo aver interpretato i due Benvenuti, si è messo in proprio con Il principoe abusivo, anche lì con un napoletano che finisce in un Nord addirittura simil tirolese. La trovata di questo Miniero ultimo sta già nel titolo. Metti una famigliola perfetta & felice lassù nel Nord del Nord Est, forse Trentino, forse Sud Tirolo, forse Veneto bellunese, insomma un posto dove si sente il freddo, le case son chalet tutte legno e gerani e ci vuol niente che la neve arrivi abbondante. Lì Cristina regge con pugno di ferro la sua casa e la sua famiglia. Il marito caruccio che si occupa di marketing e promozioni nella potenza economica locale, l’immobiliare Manetti. Due figli, il numero giusto, né troppi né troppo pochi. Cristina ambisce a entrare nella nomenclatura della piccola città, a far parte dell’inner circle dei Manetti, spinge – piccola Lady Macbeth delle periferie – il marito a fare carriera, a mettersi in mostra, manda il figlio nella scuola giusta anche se costosa. Una perfetta settentrionale, parlante con inflessioni inconfondibilmente veneto-trentine. Ma Cristina non è quello che sembra. Cristina naconde un segreto. The awful truth. In realtà si chiama Carmela, viene dalla provincia campana, e da quando è salita su nel Settentrione estremo ne ha fatte di ogni per mimetizzarsi nel movo habitat, piallare ogni traccia della sua sudità. Da Carmela a Cristina. Ma il passato ritorna implacabile e ti presenta sempre il conto, come insegnano i feuilleton. La nemesi arriva nella persona di Ciro, fratello di Cristina/Carmela, sotto processo come camorrista e mandato lì in casa di lei, e del cognato, e dei nipoti, agli arresti domiciliari. Veramente Cristina/Carmela l’ha ripuditao da tempo, di ospitarlo non vuol proprio saperne, mica vuol mettere a repentaglio l’immagine di settentrionale rispettabilità che ha tanto faticosmente costruito. Ma si può rimandare in galera tuo fratello? Così comincia la coabitazione, con i prevedibili effetti comici dell’estraneo tra noi, dell’intruso, della presenza incongrua che fa scoppiare ogni latente contraddizione. Se Cristina è tutta cruditée e pinzimonio, e strudel altoatesino come massima concessione golosa, Ciro è spaghettaro e fabbricatore-spacciatore verso gli ignari nipoti di prelibate pastiere. Insomma, metti due elementi a contrasto ed è subito commedia, come se ne son viste a centinaia. L’idea è caruccia, benché non nuovissima, tutto però dipende, come dicevan le maestre assegnando il tema compito in classe, dallo svolgimento. Che qui è abbastanza carente. L’intreccio non è così originale, i personaggi sono tutti cliché, figurette bidimensionali di cui, stabilite le coordinate caratteriali, puoi già a occhi chiusi prevedere e prefigurare gli sviluppi. Le battute vanno a bersaglio una volta su quattro (e sto largo), però la messinscena non è per niente dozzinale, la macchina da presa non se ne sta lì impalata come in altre nostre commedie comicarole, il ritmo c’è abbastanza. Per dire, ho visto l’altro giorno Sapore di te dei Vanzina che, in confronto a questo, quanto a velocità sembra la baggina all’ora di ricreazione. Miniero è regista di nuova o seminuova generazione del nstro cinema comico, viene dalla pubblicità, e si vede e si sente. Però il film è troppo furbo, e anche troppo pigro nel suo fondo, adagiato com’è nella sua idea iniziale senza che si sforzi di una qualche invenzione vera e di una qualche sorpresa spiazzante. Non ho amato Sole a catinelle di Zalone, ma devo ammettere che lì c’era di più, c’era acnhe più cattiveria, e le battute riuscite e le occasioni comiche soverchiavano quelle qui presenti (o assenti). Nuoce anche certa inattendibilità, problema cronico di molto cinema italiao di oggi, nuoce certo scollamento dal reale. Mai possibile che in una cittaduzza quale quella del film ci stia una immobliare così potente, con una sede così lussuosa e perfino faraonica? Oltretutto in un momento di crisi del mercato immobiliare come questoo. Vien sempre in mente la raccomandazione di Cesare Zavattini agli aspiranti sceneggiatori-autori-cineasti. Per imparare a raccontare una storia, e a raccontare il reale, prendetevi il tram, guardate, osservate, ascoltate. È che i mezzi pubblici, si sa, li prendono in pochi (anche perché non sempre funzionano così bene). Va a finire che il vero punto di forza di Un boss in salotto sono gli attori, cui astutamente Miniero delega parecchio. Paola Cortellesi, nella sua casalinga schizofrenicamente scissa tra identità meridionale e settentrionale è molto, molto brava, potendo giocare isrionicamente anche tra accenti altoveneto e napoletano. Rocco Papaleo le fa da controcanto come uomo del profondissimo Sud non sbagliando mai i tempi comici. Argentero fa il carino, riuscendoci.
CERCA UN FILM
ISCRIVITI AI POST VIA MAIL
-
-
ARTICOLI RECENTI
- In sala. PATAGONIA, un film di Simone Bozzelli (recensione). Storia di Yuri e Ago
- In sala. IL GRANDE CARRO, un film di Philippe Garrel (recensione). Premio per la migliore regia alla Berlinale 2023
- Venezia 80. EVIL DOES NOT EXIST (Il male non esiste) di Ryusuke Hamaguchi – recensione
- Venezia 80. GREEN BORDER di Agnieszka Holland (recensione): crisi umanitaria ai confini dell’Ue
- Venezia 80. Chi vincerà come migliore attrice/attore? Questi i favoriti
Iscriviti al blog tramite email