Bobby Fischer, il re degli scacchi, La effe, ore 0,00.
Titolo italiano anodino e qualunque, che banalizza l’originale e molto più pertinente, e potente, Bobby Fischer contro il mondo. In my opinion, uno dei veri grandi documentari di questi ultimi anni. Lo realizza per l’Hbo nel 2011 Liz Garbus, raccogliendo documenti visuali e non, e testimonianze dirette sulla vita di quell’enorme outsider che è stato lo scacchista Bobby Fischer. Colui che è entrato nella storia, e non si esagera, vincendo la mitologica sfida a Reykjavik nel 1972 con il russo-sovietico Boris Spassky. Ma se quello fu il culmine, c’è un prima e un dopo nella sua vita magari più oscuri, ma enormemente interessanti. L’infanzia dura, difficile, cresciuto da una madre (a un certo punto pure sospettata di simopatie comuniste e di spionaggio pro Urss) e da un padre che in realtà non era il suo. Scacchista precoce, bambino prodigio e campione. Ma sono gli anni successivi all’incoronazione a campione mondiale con la vittoria su Spassky che ci mostrano un Fischer sepre più rotolante verso l’abisso. Il buco nerissimo della follia paranoica, soprattutto. Lui, ebreo, sostiene di non esserlo affatto e diventa pubblicamente antisemita, dichiarandosi vittima di un complotto ebraico. Quando nel 1975 rifiuterà di rimettersi in gioco come da regolamento con Anatolij Karpov, verrà provato del titolo e da allora vagherà per il mondo, diventerà un paria, un reietto, ricercato dagli Stati Uniti dopo che avrà accettato di giocare nella ex Jugoslavia in guerra sotto embargo. Resta quella del Fischer ebreo antisemita la contraddizione più lacerante, il paradosso più sanguinoso di una vita tutta ai bordi della cosiddetta normalità, anzi parecchio al di là del confine.
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