Ripubblico la recensione scritta a Cannes 2013 dopo la presentazione del film in concorso. Film che ha per titolo in origine ‘The Immigrant’ e che così è stato proiettato a Cannes, invece ribattezzato in Italia ‘C’era una volta a New York’ a evocare subliminalmente Sergio Leone. Forse qualcuno dalle parti dell’ufficio marketing ha pensato che ‘L’immigrata’ o ‘L’emigrante’ facesse troppo Lampedusa e avrebbe scoraggiato il pubblico. Mah.
C’era una volta a New York (The Immigrant), un film di di James Gray. Con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner. Per la prima volta il James Gray di Little Odessa e I padroni della notte gira un film in costume. 1921: Ewa arriva con la sorella a Ellis Island dalla Polonia. Sarà l’inizio di una lotta per la sopravvivenza tra i cunicoli e i bassifondi di New York. I temi sono i soliti di Gray: l’emigrazione dall’est europeo, i grovigli familiari, le esistenze in bilico tra legalità e illegalità, l’ineluttabilità del destino. Solo che, frenato dai manierismi e dai vincoli del period movie, non riesce a raggiungere l’intensità dei suoi lavori precedenti (se non nella parte finale, magnifica, che lascia intuire quel che il film sarebbe potuto essere). Non aiuta Marion Cotillard, nella sua interpretazione meno convincente. Voto 5 e mezzo
Era uno dei film che a Cannes più attendevo: adoro James Gray e i suoi Little Odessa, Two Lovers, I padroni della notte. Sono uscito invece dalla proiezione di The Immigrant in Salle Lumière piuttosto deluso, anche se in questo film, soprattutto nell’ultima parte, c’è del buono che a una seconda visione potrebbe balzar fuori più nitidamente. Nel tritacarne di un festival, soprattutto come in questo caso a una proiezione alle 8.30 di mattina dopo quaranta minuti di attesa, cogli soprattutto i difetti, le impiombature che appesantiscono e mandano a fondo. Il bello, se c’è, sfuma fino a farsi invisibile. Francamente non capisco perché James Gray, talentuoso com’è, e così fortemente autore (talvolta fino all’autosabotaggio), si sia imbarcato in un’operazione tanto qualunque e perfino anonima. Un mélo, certo trattenuto e rigoroso, con però caratteri prevedibili e cliché da cattiva letteratura. Con uno svolgimento narrativo che sembra un assemblaggio di cose mille volte lette e viste. Puro coacervo di stereotipi, senza peraltro il coraggio di calvalcarne spudoratamente gli aspetti in potenza più trucibaldi e fiammeggianti. Intendiamoci: in The Immigrantritroviamo puntuali all’appello tutti i temi e le ossessioni dell’universo di James Gray. Gli emigrati dall’Est europeo, le lotte e i conflitti familiari (stavolta tra due cugini), vite al limite della legalità e spesso oltre il limite, la forza ineludibile e quasi fatale dei vincoli familiari (qui il legame tra le due sorelle), l’America amara di chi ci è appena arrivato da lontano, il sottobosco criminale, l’enorme divario tra le aspettative dell’immigrato e ciò che troverà. C’è tutto questo in The Immigrant, solo che per la prima volta James Gray gira un film in costume, un period movie ambientato nell’America del 1921, quella di Ellis Island punto di arrivo delle navi dei disperati in fuga dall’Europa, porta insieme dell’inferno e del paradiso. La stessa America, anzi la stessa New York, che abbiamo visto nel Padrino parte seconda e in America America di Elia Kazan, tanto per fare i primi esempi che mi vengono in mente. L’impressione è che Gray, lontano dai lancinanti conflitti e grovigli dell’oggi, del qui e ora, abbia perso se stesso e un pezzullo della sua anima. Una storia che poteva essere travolgente e incandescente viene impaginata correttamente ma senza slanci, forse per paura di eccedere, di sbracare, di perdersi nei manierismi del film in costume. Brutta faccenda, quando devi stare attento ai vestiti, alle scenografie, alle chicchere e alle tende, se non c’hai quella vocazione, se non sei non dico Visconti, ma almeno James Ivory. E non mi pare che Gray questa vocazione ce l’abbia. Non l’aiuta Marion Cotillard, manierata e insopportabile, sempre mesta a far faccine compunte, nella sua forse peggiore interpretazione, di una convenzionaità che verrebbe voglia di urlarle contro. Cotillard, ormi molto compresa nei ruoli di donna dolorosa, è Ewa Cybulski, approdata a Ellis Island insieme alla sorella. La quale però, scoperta tubercolotica, non riesce a ottenere il visto d’entrata e viene trattenuta nel cronicario dell’isola. Quanto ad Ewa, sta per essere espulsa e rispedita in Polonia per via di comportamenti amorali durante la traversata in piroscafo (ovvero prostituzione), allorchè interviene un tizio di nome Bruno (Joaquin Phoenix) che, grazie alle sue conoscenze, riucirà a farla entrare in America. Si rivelerà essere un traffichino e un mezzo delinquente, agente-pappone di una schiera di ragazze che quando non si prostituiscono fanno spettacolini lascivi in un teatrino. Ed Ewa, che deve pagare le cure alla sorella tubercolotica, come pensate che finirà? Già, avete capito: sul marcapiede. Eppure Bruno la ama, ma questo non gli impedisce di sfruttare Ewa (è uno di quelle tipiche contraddizioni alla Gray). Finchè lei non conoscerà un illusionista di nome Orlando (Jeremy Renner), cugino di Bruno, che cercherà di farle cambiare vita. Finirà tutto alquanto (melo)drammaticamente e qualcuno pagherà per le proprie colpe e per quelle altrui: la vittima sacrificale che puntualmente compare nei film di James Gray. Solo nell’ultima parte riconosciamo la sua mano, la sua intensità, la sua capacità di scandagliare le zone d’ombra dentro e tra le persone, di restituire la complessità e le ambivalenze dei rapporti di famiglia. Quel Gray, così ferito, così lancinante, lo ritroviamo qui nelle scene terminali. Ma è troppo tardi per salvare un film che resta, nella sua gran parte, inerte.
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