The Counselor – Il procuratore. Regia di Ridley Scott, soggetto e sceneggiatura di Cormac McCarthy. Con Michael Fassbender, Brad Pitt, Javier Bardem, Penelope Cruz, Cameron Diaz, Rosie Perez, Edgar Ramirez, Bruno Ganz, Goran Visnjic.
Le aspettative erano alte, per via che per la prima volta uno dei Grandi Scrittori Americani, Cormac McCarthy, consegnava al cinema una sceneggiatura tutta sua. Ma la trama è troppo ellittica e oscura, il mondo dei brutali narcos messicani già parecchio visto negli ultimi anni al cinema, i dialoghi discontinui, con scene memorabili alternate a cadute nel kitsch & cheap sentimentaloide. Ottimi momenti noir ci sono, intendiamoci. Però l’insieme funziona poco e ha un che di sfuocato. Voto 6 meno
Non è così brutto come l’han dipinto certi critici americani, e certe malevole e demolitorie e un po’ teppistiche recensioni made in Italy (della serie: mi notano di più se ne parlo male). Però ammettiamolo, The Counselor è abbastanza una delusione, soprattutto perché le aspettative erano alte fino alla stratosfera, visto che per la prima uno dei Grandi Scrittori Americani Contemporanei, Cormac McCarthy, serviva al cinema una sceneggiatura scritta di suo pugno, su soggetto pure interamente suo. Quel McCarthy rimasto per una vita autore di nicchia e di culto e poi scoppiato come un caso (quasi) di massa con il suo La strada, grazie anche alla promozione fattane da Oprah nel suo talk show. Libro che ha fatto sdilinquire schiere di informatori letterari di qua e di là dell’Alantico, di qua e di là delle Alpi (pubblicato da noi da Einaudi), per via della sua scrittura così mascolinamente ruvida e cool e icastica, e che, se posso dire la mia, non m’è parso questo gran capolavoro, soprattutto per una tramuccia che ricordava un po’ troppo anche troppi film post apocalittici e post atomici (e allora teniamoci stretti i vari Mad Max, suvvia, e non guatiamoli dall’alto in basso con la solita arietta). Romanzo, The Road, che poi sarebbe diventato, per la regia di John Hillcoat, un film non immenso e non memorabile nonostante la presenza dell’adorato Viggo Mortensen quale papà con figlioletto a carico in una landa desolatissima percorsa da minacce di ogni tipo, survivors cannibali compresi. McCarthy aveva avuto il suo incontro fortunato con il cinema qualche anno prima, allorché i due Coen avevano estratto dal suo Non è un paese per vecchi un trucido epperò stilizzato e autoriale film che inaspettatamente si ritrovò irrorato di parecchi Oscar, compresi quelli come migliore film e come best supporting actor al selvaggio killer Javier Bardem dotato del più orrido parrucchino che si fosse visto al cinema (lo ha appena battuto il Christian Bale di American Hustle). Solo che stavolta, senza la mediazione di sceneggiatori adusi alla macchina cinema, il Cormac McCarthy nudo e crudo non convince così tanto. Trama oscura con molte ellissi, così tante che si fa fatica a seguire gli snodi e i colpi e contraccolpi di scena, e i rovesciamenti e i twist, e le stangate e le controstangate, e le truffe e le controtruffe, e chi è il buono e chi il cattivo, chi la vittima e chi lo stronzo, ma forse la vittima è lo stronzo. Sì, lo so che non fa chic e alta autorialità esser troppo didascalici e dilungarsi in spieghe – è anche la regola per distinguersi e passar da fighi su twitter -, e che al cinema, come nella moda, less is more (vedi Rei Kawakubo, Yoshij Yamamoto, Miuccia Prada), meglio tagliare tagliare e tagliare, asciugare, ridurre all’osso che non si sbaglia mai e si fa sempre bella figura, che gli eccessi, le ridondanze e l’adesso ti faccio capire cosa succede son considerati di massima cafonaggine. Così ce l’abbiamo il film griffato Grande Scrittore Americano Contemporaneo, peccato non ci si capisca quasi nulla. Il problema è che Ridley Scott si attiene troppo fedelmente al testo, con una messinscena corretta ma abbastanza anonima, senza slanci e senza quelle invenzioni di cui pure uno come lui sarebbe capace, quasi provasse un rispetto e un timore reverenziali. La storia è una di quelle storie di frontiera tra Usa e Messico, e con sconfinamenti in un Messico terra infame di narcotraficantes che sono i peggio e più brutali fuorilegge del mondo, con truppe private e armi leggere e pesantissime, gente capace di una ferocia altrove neanche pensabile. Mondo e caratteri che McCormack sa restituire come sa fare lui, solo che arriva un po’ troppo tardi, dopo che il cinema negli ultimi e penultimi tempi ha ampiamente saccheggiato quel territorio narrativo. Dio mio, quanti film con trucidi e sadici narcos messicani abbiamo già visto? Butto lì a memoria: Le belve di Oliver Stone (cui The Counselor assomiglia davvero troppo), Two Guns/Cani sciolti con la coppia Mark Wahlberg-Denzel Washington, Viaggio in paradiso con Mel Gibson, Heli di Amat Escalante (premio a Cannes 2013 per la regia), La Jaula de Oro (premio a Cannes-Un certain regard 2013), che a questo punto viene forte il sospetto di un genere codificato e perfino de-generato in maniera. Dunque: un avvocato se ricordo bene texano in difficoltà economica – per motivi che non ho afferrato – accetta di entrare in società con un suo cliente (un Javier Bardem dall’incredibile capigliatura selvaggia e camicia simil Versace anni Ottanta-Novanta) per una partita di coca di venti milioni di dollari. Nel frattempo facciamo conoscenza dell’amante di Ranier-Bardem, una Cameron Diaz nostra signora delle tamarre che nella scena cultistica del film si masturba strusciandosi a gambe divaricate in spaccata da lago dei cigni sul parabrezza e varie asperità della Ferrari dell’amato. E conosciamo altri caratteri. Un avventuriero americano di nome Westray (Brad Pitt, capelluto e bravo), una madre messicana carcerata e il di lui figliolo manipolato e usato dalla mafia della coca. Intanto l’adorata moglie del protagonista (una Penelope Cruz buttata via in una parte senza il minimo spessore, solo un oggetto funzionale alla narrazione) diventa il bersaglio dei malavitosi, e non sarà che il primo passo nella discesa agli inferi dell’avocato che voleva guadagnare venti milioni di dollari. La coppia Cormac McCarthy-Ridley Scott si inoltra in un noir senza molte sorprese – anche i colpi di scena sono prevedibili – ma neanche senza molti errori. Il film, per quanto déjà-vu nel suo plot e nell’ambiente e nei contesti, è un prodotto più che dignitoso. I due san restituire la crudeltà e la riduzione all’inumano del cerchio gran-malavitoso, le turpitudini e le avidità, gli sciupii vistosi dei troppo ricchi da troppi loschi traffici (il Rainer di Bardem che va a caccia con i leopardi, o son ghepardi?, insomma felini maculati e velocissimi). The Counselor non è riscattato però dall’aura della Grande Opera. I dialoghi di McCarthy sono discontinui, alternando ovvietà e insensate melensaggini (la scena d’amore d’apertura tra Fassbender e Penelope Cruz vorrebbe essere un filo hard per via del cunnilingus e dell’orgasmo ripetuto e assai mugolato di lei, ed è solo tremenda per le sue cadute sentimentaloidi) a ottime scene. Come quella, tutta giostrata sul linguaggio allusivo-trasversal-mafioso, della telefonata dell’avvocato dei narcos a Fassbender, un pezzo da far studiare nelle scuole di sceneggiatura. Se solo lo script fosse stato un attimo rivisto, discusso, riscritto, ne sarebbe uscito qualcosa di grosso. Ma si può discutere un sacro testo firmato Cormac McCarthy, uno che magari ti becca il Nobel?
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