Recensione. YVES SAINT LAURENT è un ritratto molto convenzionale, con qualche peccato e molta, troppa virtù. Un biopic assai istituzionale. Soprattutto, non c’è la grandezza della moda

21055845_20131107160110306Yves Saint Laurent, regia di Jalil Lespert. Con Pierre Niney, Guillaume Gallienne, Charlotte Le Bon, Laura Smet, Marie De Villepin. Presentato nella sezione Panorama Special.

Pierre Niney e Guillaume Galienne sono Yves Saint Laurent e Pierre Bergé

Pierre Niney e Guillaume Galienne sono Yves Saint Laurent e Pierre Bergé

Presentato con gran pompa al restaurato ZooPalast, il molto atteso biopic di Yves Saint Laurent delude parecchio. Un ritratto nei toni dell’agiografia, anche se non si tacciono del protagonista i crolli psichici, le dipendenze varie, la decadenza. Ma come si sarebbe potuto, visto che son cose risapute? L’operazione porta l’imprimatur di Pierre Bergé, che di YSL è stato il socio e il compagno di vita, e il vero genio economico-finanziario dietro il marchio. Narrazione prevedibile e mancanza di ogni visione di cinema, e dello stile. Voto 4 e mezzo.

Bergé & Yves

Bergé & Yves

Da sinistra: il regista del film (con l'interprete), PIerre Bergé, Guillaume Gallienne, PIerre Niney e gli altri attori sul palco dello ZooPalast alla fine della poriezione

Da sinistra: il regista del film (con l’interprete), PIerre Bergé, Guillaume Gallienne, Pierre Niney e gli altri attori sul palco dello ZooPalast alla fine della proiezione

Tappeti rossi, letteralmente, per questo molto atteso biopic – già uscito in Francia da un paio di settimane con clamoroso successo di pubblico, milioni e milioni incassati – che ha aperto ieri alle ore 18.00 la sezione Panorama Special (che non ho capito in cosa si differenzi da Panorama-e-basta, ma fa niente, questo è un Festival che si ramifica e si moltiplica di continuo in categorie e sottocategorie). Era tutto un tripudio di pavimenti di rosso coperti lo ZooPalast, storico cinema di Berlino Ovest già tra i luoghi simbolo della Berlinale pre-caduta del Muro, poi rimasto chiuso a lungo per restauri. Riattivato giusto ieri con lo screening di Yves Saint Laurent. Schermo ricoperto da sipario-mantovana dorato molto Fifties, un tripudio di velluti rossi, un soffitto profondo blu cosmo, una bellezza vera, una sala-monumento. In platea il regista e gli interpreti, compresi Pierre Niney che è Yves e Guillaume Gallienne che è il suo amante-socio-manager Pierre Bergé. Ma l’evento era la presenza, insieme al cast, del vero Bergé, l’uomo di potere che sappiamo, signore, anche, di alcuni media francesi. Che con una certa fatica, e assistito e sorretto, ha salito i pochi gradini del palco per farsi salutare e applaudire a fine proiezione. Sì, va bene la cronachetta mondana, ma il film? Il film com’è? Brutto. Una magnifica occasione sprecata. Agiografico nonostante le finte trasgressioncine, sessuali e non, disseminate qua e là. Si sente che trattasi di biografia molto ufficiale e molto autorizzata con tutti gli imprimatur e i nullaosta del caso, compresi quelli, autorevoli e credo necessari, di Bergé. L’Yves Saint Laurent che in fondo già conoscevamo, già raccontato con più o meno reticenze da articolesse di giornali di mezzo mondo e da una manciata di libri. Un santino, questo film, ma di quelli moderni, ovvio, dunque con qualche peccato e vizi e viziacci a rendere meno stucchevole ed edificante il ritratto, ché oggi l’immaginetta semplice non usa più e qualche brividuccio al pubblico bisogna pur concederlo. Comunque è venuta subito la voglia di vedere l’altro biopic in arrivo di Saint Laurent, stavolta senza sigilli ufficiali e dunque assai più promettente, intendo quello girato da Bernard Bonello, un autore che nella sua filmografia può esibire qualche maledettismo vero, mica solo per finta. Questo Yves Sain Laurent non si concede arditezze di nessun tipo, la struttura narrativa è linearmente classica, ordinata secondo cronologia (salvo qualche flashbackuccio qua e là), di idee registiche illuminanti e di interpretazioni non c’è manco l’ombra, tutto scorre secondo prevedibilità (e noia). Un prodotto anonimo e seriale, che, pur usando decine di volte a proposito del suo protagonista la parola genio, di quel genio non sa restituirci niente, non la grandezza, non la scintilla. Quel che è grave davvero è che il meraviglioso della moda, e di quella moda poi – quella degli anni tra Cinquanta-Sessanta-primi Settanta – non traspare mai, non c’è niente in questo mediocre film (che è peggio di un brutto film) dell’aura di sacro che circonfonde sempre la moda quando è invenzione, quando è assoluta e quando, a modo suo, l’assoluto te lo fa percepire. Son tutte cosucce allineate al banale, le scene che vediamo. L’incontro tra Dior e il govanissimo Saint Laurent, subito preso alla maison come protégé e delfino del capo fondatore, è di un’ordinarietà e pochezza da far cascare le braccia. Nulla vediamo e respiriamo di quei rituali rigorosi e a modo loro religiosi che precedono e si concretano nelle sfilate. Chi un po’ la moda l’ha conosciuta o la conosce, resterà deluso. La ricostruzione della vita d’atelier, e delle collezioni più famose di YSL (quella Mondrian, quella maschile, quella russa) sarà anche filologicamente corretta, ma del tutto priva di ogni seduzione e suggestione, ed è il senso profondo della bellezza a mancare clamorosamente. Dialoghi che al loro meglio son didascalici, al loro peggio inutilmente sentimentaloidi. Per fortuna cè Pierre Niney, attor giovane e già bravissimo, che si cala nel personaggio Yves restituendocene le fragilità, le isterie, le ombre, le tortuosità, le ambiguità, senza cadere nello stereotipo del gay-della-moda, mostrandoci tutta la gaytudine di YSL senza nulla concedere a manierismi e smancerie, in una performance strepitosa per sensibilità ed equilibrio tra i vari registri. Si comincia con Yves nella natia Orano, Algeria ancora francese ma in procinto di precipitare nella guerra che sappiamo, ragazzino adorato dalla signore per la sua abilità di disegnare il vestito giusto per l’occasione giusta (e uno sguardo d’intesa lanciato dalla finestra a un uomo di fatica arabo ci dice i suoi gusti sessuali). Poco più che ventenne è da Dior a Parigi. Poi le prime fratture psichiche, i primi crolli nervosi, quando vien chiamato per il servizio militare e lo ricoverano in ospedale psichiatrico dove gli diagnosticano una sindrome maniaco-depressiva. L’indizio di quelli che saranno i decenni futuri, segnati da insicurezze, ossessioni, dipendenze da droghe e farmaci, pulsioni autodistruttivei. Intanto ha conosciuto Pierre Bergé, l’uomo che sarà il suo compagno di vita, la roccia, la spalla su cui Yves potrà appoggiarsi, e che, lasciandogli la parte creativa, si occuperà di tutto il resto: dell’organizzazione, della gestione aziendale, della publiche relazioni. L’uomo che ha inventato il marchio Yves Saint Laurent è Bergé. È lui a spingere il giovane couturier appena licenziato dalla Maison Dior (al suo posto andrà Marc Bohan) a fondare la sua casa di moda e il suo brand. Nasce YSL, e il resto più o meno già lo sappiamo, e qui di quel resto ci viene mostrato soprattutto il periodo aureo, quasi niente invece degli anni ultimi della decadenza, fino alla morte. L’abilità di questo biopic piatto e perfino noioso è solo quella di non tacere ciò che non si poteva tacere perché ormai ampiamente scritto e documentato. Insomma i lati oscuri di YSL, o almeno quelli non occultabili. Ecco le crisi nervose sempre più frequenti, ecco le liti con Bergé e i rispettivi tradimenti. Bergé fa l’amore con Victoire, la modella-musa del primo Saint Laurent, la sua migliore amica, la donna che per un po’ aveva pensato perfino di sposare. Ed è scena ultracamp con lei, nel momento in cui Berge la spiaccica al muro e la bacia, che si volta a mostrare il lato b, tacitamente implorando la sodomizzazione (che, intuiamo, furiosamente avverrà, scena che il regista gira con supremo sprezzo del ridicolo). Ma son da Liala gayzzata pure i primi baci di Yves e Pierre lungo la Senna, fintissimi, gicché tra i due attori non c’è la minima chemistry. Del resto, come facciamo a credere a Guillaume Gallienne quale Bergé, dunque uomo razionale, rigido e lato virile della coppia, quando lo abbiamo appena visto quale effemminatissimo e molto divertente protagonista di Tutto sua madre travestito da Sissi? Però il più sfrenato, e purtroppo inconsapevole, melò lo si raggiunge quando Yves ruba il bello e torbido e vizioso amante a Karl Lagerfeld, un ragazzo dal complicato nome nobiliare e dalle fattezze di angelone perverso che porterà il couturier sulle strade della perdizione e nei peggio gironi infernali (con scena di cave alla Cruising con sesso duro e promiscuo), come nel Visconti più scatenato, quello del periodo Helmut Beger (e però, ovvio, senza la grandezza e il gusto di Visconti). Bergé lo pagherà perché si allontani dal suo Yves, e così succederà. Ma anche senza il suo uomo del peccato il nostro continuerà a rotolare sempre più giù. Nonostante i vizi mostrati, poco però ci viene detto del vero Saint Laurent, ridotto a santino e icona di pura superficie. La corte degli amici, della amiche, l’ambiente della maison, dell’atelier, sono ricostruiti con diligenza, ma senza particolare talento e sottigliezza. Forse recuperabile come guilty pleasure, ma temo che nemmeno questa strada sarà facilmente praticabile. Questo resta un filmetto medio e mediocre, e il medio mal si concilia con ogni tentativo di cultizzazione.

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