Berlinale 2014. Recensione: BLACK COAL, THIN ICE. Un po’ Chandler un po’ Simenon, però cinese

20143347_2Bay Ri Yan Huo (Black Coal, Thin Ice), un film di Diao Yinan. Con Liao Fan, Gwei Lun Mei, Wang Xuebing. Presentato in concorso.
20143347_3Una lurida storia di provincia alla Simenon. Solo che qui siamo nel nord della Cina, tra neve, fango, polvere di carbone. Vari cadaveri vengono ritrovati a pezzi, tutti connessi in un modo o nell’altro alla stessa donna. Qualche incongruenza di troppo, però il noir c’è, e non è niente male. Voto 6.
20143347_1Un noiraccio ambientato nella più nordica, fredda e opaca Cina, ambienti da stringere il cuore, e pezzi di cadaveri ritrovati sparpagliati in una vasta area, preferibilmente sotto mucchi di carbone nastrotrasportati dalla locale miniera. Chi sono? Chi li ha ammazzati, e perché li ha smembrati in quella maniera? Un poliziotto abbastanza astuto si rende conto che tutti i corpi ritrovati sono in qualche modo connessi a una bella signora tenutaria di una piccola lavanderia. Si sospetta sia una dark lady, mettono a tenerla d’occhio un bravo poliziotto che ultimamente si è lasciato un po’ andare con l’alcol dopo la separazione dall’amata moglie. Il nostro fa il dovere suo, ma c’è il sospetto che perda la testa per la bella lavandaia e se ne lasci manipolare. Una lurida storia di provincia, di quelle che quando son tratte da Georges Simenon si urla al miracolo, e invece qui che siamo in Cina no, tutti a storcere il naso (almeno questo l’umore prevalente nelle stampa acreditata alla Berlinale). Come se dal cinema cinese dovessero arrivare solo cose rigorosamente d’autore e non di genere. Che tutt’al più gli concediamo il wuxiapian, che è tanto etnico e cosa loro (una volta si sarebbe detto esotico), ma il noir alla Chandler o Simenon giammai, che è roba nostra. Invece il risultato non è niente male, le atmosfere sono livide al punto giusto, il tasso di ambiguità e sospensione è quello che ci vuole. Vero, il plot fa un attimino acqua qua e là. Le incongruenze sono oltre il livello consentito dal manuale del buon sceneggiatore, si fa fatica a seguire le varie fasi e i vari capovolgimenti, anche perché (diciamolo chiaro, a costo di passare per razzisti) le facce cinesi al cinema facciam fatica a distinguere, tantopiù in questo film in cui l’assassino e il poliziotto che indaga sono somigliantissimi, stessi baffi, stessa barbetta. Ci son però delle gran scene, quella nel locale equivoco che si riallaccia a tanti luoghi di perdizione della Cina premaoista visti in tanto meravigliosa cinema, e il finale con i fuochi di artificio.

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