12 anni schiavo, un film di Steve McQueen. Con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Lupita Nyong’o, Paul Dano, Paul Giamatti, Brad Pitt, Garret Dillahunt.
Solo apparentemente una film didascalico, o una ricostruzione politicamente correttissima di quel che fu la schiavitù. Steve McQueen ancora una volta allestisce, come nei precedenti Hunger e Shame, lo spettacolo del corpo prigioniero, compresso, torturato. Dell’uomo in balia degli uomini. Dell’universo concentrazionario. Con uno stile che gli consente di controllare anche la materia più incandescente e sensibile. Grande Chiwetel Ejiofor, grandissimo Fassbender. Voto 9.
Pochi registi al mondo, oggi, riescono come Steve McQueen a turbarmi, a rovistarmi dentro e un poco a rovinarmi, chissà. Il suo Shame lo considero uno dei grandissimi film di questi anni Duemila e qualcosa di epocale (in Italia sottovalutatissimo), e il suo precedente Hunger lo situo appena sotto Shame quanto a carica esplosivamente disturbante. Adesso questo 12 anni schiavo, che da noi non ha fatto scoppiare di entusiasmi i critici, specie i più ufficiali, dividendoli in due schieramenti opposti, anche fieramente contrapposti (con netto prevalere degli sfavorevoli). Io mi colloco tra i pro McQueen, anzi tra i pasdaran del pro. Questo è un film enorme che resterà, al di là del suo successo contingente, e al di là degli Oscar che domenica prossima si prenderà o perderà.
Certo 12 anni schiavo depista osservatori e spettatori, fa di tutto per farsi credere un film politicamente correttissimo sulla stagione nera dello schiavismo americano, una versione aggiornata e adeguata ai disincanti attuali dell’archetipica Capanna dello zio Tom o di Radici. Anzi, fa di tutto, e ci riesce, a farsi credere e accettare come il film definitivo sullo schiavismo, e come un martirologio di quanto i neri deportati dall’Africa e consegnati inermi al massacro dei campi di cotone han dovuto patire. Ma il distacco, a volte la mancanza di ogni vibrazione sentimentale e perfino di partecipazione tout court, con cui McQueen mette in scena le sofferenze del suo protagonista Solomon Northup ci dovrebbero avvertire di come non ci troviamo nel campo della narrazione pop più ovvia, quella costruita sull’opposizione binaria bene/male con successiva identificazione dello spettatore in chi il bene lo incarna, ma altrove, in una regione più ambigua e inquietante, di ombre e chiariscuri, e densa di domande, dubbi e perfino sospetti. A rendere assolutamente nostra contemporanea questa storia di metà Ottocento, almeno così come ce la rappresenta Steve McQueen, non è la sua edificante per quanto necessaria denuncia di un’era criminale della storia americana, è invece il suo costituirsi come racconto grande, e spesso fuori misura e su scala gigante, di una perversione, di un’aberrazione che pervade uomini e donne e il mondo di cui sono parte. 12 anni schiavo ipnotizza e insieme allarma, e fa risuonare strane corde sepolte in chissà quale parte di noi, osando mostrarci senza infingimenti o ipocrisie e bellurie, la fiera della crudeltà che gli umani riescono ad allestire quando si abbandonano al – e assecondano il – male dentro di sè, quando ritagliano e recingono un’area chiusa, un universo concentrazionario, in cui possono tasformarsi in carnefici e padroni assoluti delle proprie vittime. La schiavitù come condizione estrema di uomini in balia di altri uomini, di uomini deprivati della loro stessa umanità (“sono negri, dunque scimmie, animali”) e ridotti a cose e, dall’altra parte, di uomini che, in preda alla hybris, si credono in grado, e perfino nel diritto, di possedere altri uomini. Il gioco perverso del dominio e del controllo. Il sadismo, nella più classica e aurea delle definizioni e connotazioni, quella freudiana. Difatti vedendo 12 anni schiavo non si può non pensare a un’altra condizione estrema di asservimento e distruzione di umani su altri umani, la Shoah, e ai film che han tentato di raccontarcela e restituircela, riuscendo solo in pochi casi a farci scorgere l’abisso. 12 anni schiavo invece sì, l’abisso ce lo spalanca davanti, e non è impresa di poco conto.
Anni Quaranta dell’Ottocento, Stati Uniti, a Saratoga, stato di New York. Solomon è un nero libero e benestante, dotato di una bella e felice famiglia, assai stimato come violinista (dal che deduciamo, come dice la mia amica E., che in quel tempo già esisteva una borghesia nera, almeno negli stati settentrionali della federazione). Verrà attirato in una trappola e finirà pigioniero di trafficanti di merce umana, privato della sua identità, venduto come schiavo ai signorotti del sud. Le grandi ville in stile neoclassico, le signore agghindate come Rossella O’Hara, e i campi di cotone. Sarà per Solomon una progressiva discesa all’inferno, prima comprato da un brav’uomo assai pio che però per debiti (e anche per liberarsi di lui, troppo ribelle e ingombrante) lo rivenderà al più perfido di tutti i padroni, noto per la spietatezza verso i suoi schiavi. Golgota. Via crucis. Solomon dovrà sopportare ogni sopruso, rischierà più volte di essere ucciso, vedrà intorno a sé altri schiavi morire per fatica, per le violenze, per incapacità di sopportare quella non-vita, conoscerà una giovane donna schiava che del padrone è la favorita e insieme il trastullo e l’oggetto di ogni sua ferocia. Didascalico? Certo. McQueen, riadattando il libro autobiografico – rimasto peraltro dimenticato per molto tempo – del vero Solomon Northup, immagino intenda in primis ricordarci quella macchia nera nella storia degli Stati Uniti e dell’Occidente. Ma è più attratto dai bordi della sua storia, dalle sfumature, dai contorni meno definiti e più indecifrabili. La scena terribile del mercato degli schiavi diventa anche, nelle mani e nello sguardo del regista (britannico, sarà il caso di ricordare), un tripudio della carne e dell’erotismo, con quei corpi – femminili e maschili in pari misura – che si fanno capitale erotico e ci lasciano intuire come lo schiavismo fosse pure possesso e collezione di beni ad alto tasso di sensualità. Non è la prima volta che il cinema ci racconta questi sottintesi e sottotesti, si pensi a film come Mandingo o Addio zio Tom di Gualtiero Jacopetti (giustamente ricordato e citato a proposito di 12 anni schiavo da un critico americano), ma è la prima volta che a muoversi in questa zona ambiguamente sospesa tra desiderio e orrore sia un regista di perentoria autorialità. A McQueen è stata lanciata, più o meno velatamente, l’accusa di fare pornografia. Pornografia dei corpi sontuosi, pornografia del dolore e della sofferenza allorquando quei corpi sontuosi vengono sottoposti sadisticamente (voluttuosamente?) a ogni possibile tortura e offerti a noi in ogni loro lacerazione e sanguinamento. Feriti, frustati, battuti, legati, maciullati, fatti a pezzi, in uno spettacolo della carne e del sangue – e della sopraffazione – che è il senso vero e ultimo di questo film. Sì, anch’io in molti momenti ho temuto la possibile deriva voyeuristica, sadica e pornografica del film. Ma perché mai indignarsi? Se questo è il prezzo da pagare perché si indaghi nelle zone più oscure dell’eterno e sempre risorgente rapporto padrone-schiavo, perché si rintracci e afferri un qualche ulteriore brandello di verità, paghiamolo pure, ne sarà valsa la pena. 12 anni schiavo, nella sua apparente didascalicità e correttezza politica, osa parecchio e butta il suo sguardo, e il nostro, sulla larga zona grigia in cui il bene e il suo opposto si intersecano, in cui il demoniaco corrompe, soggioga e annette l’angelico. Il buon padrone, cristiano devoto e pio, che ha però al suo soldo un sadico gestore dei suoi schiavi. La padrona bianca e cattiva che butta più di un’occhiata al corpo dello schiavo Solomon. Il padrone bianco e cattivissimo che perde la testa e quel che resta della sua ragione per la prediletta schiava nera. La schiava concubina del padrone diventata a sua volta padrona, e padrona di schiavi. Fino all’acme della fustigazione di Patsey, la favorita del perfino Edwin Epps, da lui punita in un delirio di odioamore e di desiderio che distrugge il suo oggetto per non doversi riconoscere. Con Solomon trasformato da vittima in carnefice e costretto a impugnare lui la frusta contro Patsey. Quanti sconfinamenti, mio Dio, oltre il politicamente corretto e in quell’area oscura dove molte certezze rischiano di affondare. Difatti il vero protagonista, anche se occulto, non è il buon Solomon, ma il folle e sadico padron Edwin, grandiosa e ipnotica incarnazione del male che ricorda certe gigantesche performance di Orson Wells, Il terzo uomo o L’infernale Quinlan. Con un Michael Fassbender assoluto e, in ogni senso, mostruoso, che dovrebbe beccarsi subito l’Oscar come best supporting actor se ci fosse giustizia a questo mondo, mentre temo che verrà sconfitto dal Jared Leto di Dallas Buyers Club (peraltro formidabile, solo che il suo personaggio è una figurina piatta a fronte di quello di Fassbender). 12 anni schiavo descrive un universo concentrazionario senza pietà né legge e, alla Artaud (e, ebbene sì, alla Sade), ce ne mostra ogni possibile deriva e conseguenza, ogni possibile corruzione dei corpi e delle anime, ogni sopruso e depravazione. Specchio oscuro in cui siamo costretti a rifletterci, e no, non è una visione rassicurante. Lo fa, Steve McQueen, con la forza dello stile. Il suo continua ad essere lo sguardo del videoartista che era agli inizi della sua carriera. Attento fino alla maniacalità e all’ossessione (come in Shame, come in Hunger del resto) alla composizione visuale e agli equilibri compositivi tra i vari elementi dell’inquadratura. La bellezza e la perfezione non abbandonano mai questo film, nemmeno nelle scene più efferate (quella dell’impiccagione di Solomon, per dire), e non è solo questione di prevalenza della forma sul contenuto, non è solo un percorso e un processo di estetizzazione e sublimazione. La magnificenza visuale di 12 anni schiavo è se mai un’arma che consente al suo regista di mostrarci ogni abiezione mantenendola sotto controllo e a distanza, raggelandola attraverso la pratica della forma e dello stile. Vero, come qualcuno ha scritto, che durante la visione si resta scossi e turbati, però commossi mai, ma questo è semmai una qualità del film, non un suo limite, perché attraverso la distanza possiamo vedere meglio e più nettamente. Diversamente però da molti registi nati con l’arte e/o con la videoarte, Steve McQueen usa il suo enorme talento visuale non per creare una galleria di immagini sfolgoranti e celibi, ma per costruire una narrazione, e che narrazione. Anzi, in questo suo terzo film fa un salto decisivo e si discosta dai suoi due precedenti per buttarsi a raccontare una storia popolare e perfino mainstream, riuscendoci pienamente. Tant’è che 12 anni schiavo ha avuto, soprattutto nell’area anglofona, un successo insperato al box office, oltre che una quantità impressionante di premi, dai Golden Globe ai Bafta. McQueen esce dal cinema di nicchia e diventa un regista popolare. Eppure resta coerente. Questo film ha legami sottili e però robustissimi con i suoi due precedenti. Ancora una volta SMQ mette in scena e a nudo le sue ossessioni, i suoi fantasmi, che sono quelli degli universi concentrazionari e carcerari, degli umani costretti nelle condizioni estreme della cattività, dei corpi torturati, offesi, deturpati, alienati, cosificati. Del confronto tra vittime e carnefici, osservato con sguardo distante e distanziante. Il Solomon di 12 anni schiavo è la perfetta continuazione sotto altre vesti del militante dell’Ira chiuso nella sua cella di Hunger. È la nuova faccia e il nuovo corpo con cui si ripresenta a noi il protagonista di Shame, pure lui torturato, cosificato, prigioniero, anche se non di forze esterne ma della sua ossessiva dipendenza dal sesso. Anche in questa rigorosa fedeltà a se stesso McQueen mostra di essere un autore.
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