Recensione. SNOWPIERCER: schiavi contro padroni in un treno blindato, e la lotta di classe torna al cinema

1932328_466365746825783_1479799688_nSnowpiercer, un film di Joon-ho Bong. Con Chris Evans, Jamie Bell, Tilda Swinton, John Hurt, Kang-ho Song, Octavia Spencer, Ed Harris.
1959365_464093183719706_1428345192_n1962752_467618383367186_375130375_nNel solito futuro distopico, un treno gira senza mai fermarsi con a bordo i sopravvissuti alla glaciazione che ha colpito la terra. In coda i diseredati, gli oppressi, gli schiavi, in testa i ricchi, i privilegiati, i padroni. Anzi, il padrone. Una rigida divisione che ricorda quella di Metropolis di Fritz Lang. Finché anche qui sarà rivolta. Un film coreano girato in inglese con cast internazionale, e già di culto prima che arrivasse nei nostri cinema. Da vedere. Non è il solito post-apocalittico, qua c’è dentro una visione autoriale. Voto 7 e mezzo.
cinema-snowpiercer-02Dopo The Host e il successo internazionale e soprattutto americano di Mother-Madeo, il regista coreano Joon-ho Bong torna con questo post-apocalittico, contando su un budget consistente – il più alto nella storia del cinema coreano – e un cast internazionale, da Chris Evans a John Hurt e Ed Harris, e perfino Tilda Swinton in una parte di cattiva supercamp che i suoi fanatici devoti adoreranno. Dopo la glaciazione che ha colpito e distrutto la terra, un treno viaggia con a bordo gli unici sopravvissuto alla catastrofe. In coda i poveri e gli affamati, in testa i ricchi e godoni, con l’uomo-padrone che quel treno-arca ha progettato. Ci sarà la rivolta degli schiavi, in un film che riporta sugli schermi la lotta di classe in forma di racconto fantastico-distopico, come già l’anno scorso Elysium con Matt Damon, solo che questo è molto meglio. Film di produzione sud coreana da una graphic-novel francese girato in inglese con cast international, dunque sulla carta uno di quei cinecolossi anonimi e anodini destinati alle indifferenziate platee globali. Invece no, Snowpiercer combina visione autoriale, e un’impronta assai personale, con le convenzioni e i modi fracassoni e spettacolari dell’attuale cinema action-fantastico, con tanto di ricorso all’effettistica speciale in CGI.
Era un bel po’ che se ne parlava in giro, ma Snowpiercer sembrava essere diventato un film samizdat, di quelli molto citati e rievocati e attesi, però mai usciti in sala, almeno in Occidente. Film, letteralmente, underground. Finché è apparso (fuori concorso) al Festival di Roma 2013, dove l’ho visto in una proiezione assai affollata e molto gradita al pubblico al cinema Barberini – per poi riemergere il mese scorso alla Berlinale. L’oggetto tanto atteso quanto misterioso si è dunque palesato e materializzato, anche se non ancora in America per via di un braccio di ferro tra Joon-ho Bong e il distributore, che è poi il solito, potentissimo Harvey Weinstein. Oggetto del contenzioso, come nella miglior tradizione degli scontri autore-produttore (o distributore), il final cut. Weinstein vuole accorciare di parecchio il film, Joon-ho Bong non ne vuole sapere. Dopo Berlino però pare si sia addivenuti a un accordo tra le parti, almeno così riferisce IndieWire, e dunque Snowpiercer dovrebbe uscire negli Stati Uniti ponendo fine alla sua leggenda di film sotterraneo e un filo maledetto. Certo questa sortita italiana – distribuisce Koch Media – sembra quasi un miracolo, e allora meglio intercettarlo e non lasciarselo scappare. Vale la visione. Lo stile della messinscena è alto, la tensione costante, la coda del treno, dove sono confinati i diseredati, oscilla tra Les Misérables (intendo Victor Hugo, non il musical) e il ventre del langhiano Metropolis, interni color carbone e piombo e pece, affondati in un buio quasi perenne. La testa, dove stanno gli sciuri e il misterioso capo e dittatore nonché inventore del treno chiamato Snowpiercer (blindato, a prova di gelo esterno e autoalimentantesi grazie a un motore perpetuo), è invece luminosa e dotata di ogni comfort. I peggio soprusi vengono perpetrati ai danni dei povericristi, compreso il rapimento di bambinetti di cui solo a fine film scopriremo il motivo. Sarà rivolta, sarà l’urlo della plebe contro i privilegiati, sarà tumulto spartachista degli schiavi, sarà rivoluzione, e indovinate come andrà a finire. Mentre il treno gira perennemente in circolo attraversando il mondo assiderato là fuori (tutta colpa di un intervento umano nell’atmosfera che doveva neutralizzare il global warming e che invece ha finito col provocare, per sbaglio di dosaggio, una nuova era glaciale), dentro ai vagoni il movimento, fisico e anche narrativo, va dalla coda verso la testa. Step by step, i diseredati, gli ultimi, avanzano, riuscendo a superare impossibili posti di blocco e a sconfiggere la spietata milizia incaricata del mantenimento dell’ordine. Fino al confronto-scontro finale. Oppressi contro oppressori, in una parabola che sa di Brecht e di Marx come al cinema e non solo al cinema non usava più da un pezzo. Con qualche complicazioni e ambiguità (non tutti gli oppressi, si scoprirà, sono buoni e immacolati, anzi ci sarà un’amarissima sorpresa). Chris Evans, il buon Captain America (occhio, è in arrivo la sua nuova avventura) è il ribelle, John Hurt il suo guru, chiamato Gilliam pare in omaggio al regista e al suo Brazil. Octavia Spencer è una madre disposta a tutto per salvare il figlio. Ma a rubare la scena è Tilda Swinton come portavoce e assistente del gran capo misterioso e invisibile (almeno per gran parte del film), incarnazione del potere e delle sue doppiezze e delle sue tattiche manipolatorie. Con un make-up che la rende irriconoscibile e laida, in uno dei travestimenti che sembrano distinguere questa fase della sua carriera, e il prossimo è quello che la trasforma in ottuagenaria in The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson.

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