The Little House (Chiisai Ouchi), un film di Yoji Yamada. Con Haru Kuroki, Takako Matsu, Hidetaka Yoshioka, Satoshi Tsumabuki, Chieko Baisho, Takataro Kataoke. Presentato al festival di Berlino 2014. La protagonista, Haru Kuroki, ha poi vinto l’Orso d’argento per la migliore interpretazione femminile.
Ultimo film in concorso alla Berlinale. Nel Giappone dei tardi anni Trenta una donna perbene si innamora di una ragazzo più giovane e per lui mette a repentaglio tutto quello che ha. Un amour fou raccontato dalla fedele domestica che di quella storia fu la testimone. Tradizionale mélo confezionato in uno stile morbido, classico e senza scosse da film chic per signora. Che però è anche, più sottilmente, un percorso in uno dei periodi cruciali e più drammatici del Novecento giapponese. Ed è questo l’aspetto più interessante. Voto 6 e mezzo.
Quando sono a un festival cerco di vedermi tutti i film del concorso e di darne conto con una recensione. Alla recente Berlinale (6-16 febbraio) ce l’ho fatta a non perderne nemmeno uno, non riuscendo però poi a scrivere dell’ultimo titolo della Competition, questo The Little House del giapponese Yoji Yamada. Rimedio adesso, anche perché è stato tra i film che più sono piaciuti (a me così così, e più avanti spiego) e applauditi ai press screenings, e un commento benché tardivo se lo merita. Devo dire che non ne sono stato entusiasta, mi è parso alla visione molto convenzionale e tradizionale nella fattura e nel linguaggio cinematografico, fin troppo classico e senza il minimo azzardo. Ma oggi, a qualche settimana di distanza, The Little House mi è cresciuto nella mente ed eccomi qui a fare un po’ di autorevisionismo, a rettificare un attimo la mia prima impressione. Pensando soprattutto allo status del suo regista, Yoji Yamada, classe 1931 e tra i cineautori più amati in patria, presente a Berlino con i suoi attori e persona squisita. A rendere interessante parecchio il suo film è che, sotto l’apparenza del feuilleton di amori proibiti, passioni, tradimenti, cela una rievocazione e rivisitazione di quel fu il Giappone nei tardi anni Trenta, ai tempi della sua espansione imperiale tra Pacifico e Cina, fino all’entrata in guerra e all’epilogio che sappiamo. Con toni assai morbidi da film per signora si racconta sì di storie private, ma intanto si restituisce senza darlo troppo a vedere, si potrebbe dire con pudore, un pezzo di storia, quella grande, quella macro che sovrasta e magari inghiotte i destini individuali e li tritura, con qualche riflessione per niente ovvia su quegli eventi. Restando abbastanza ambiguamente (ma ciò è bello) sospeso tra nostalgia e presa di distanza da quel Giappone inebriato della sua potenza. Stranamente, o forse significativamente, è il secondo film giapponese arrivato negli ultimi mesi in Occidente ambientato tra le due guerre e poi nel precipizio della sconfitta, della fine del Giappone imperiale, dopo il meraviglioso The Wind Rises di Hayao Miyzaki visto a Venezia lo scorso settembre. In entrambi i casi si accenna all’espansionismo del paese, all’invasione della Manciuria, all’arroganza della superpotenza che sognava di sottomettere l’Asia, e lo si fa lateralmente, ma riuscendo a intercettare tensioni e interrogativi, polemiche e dibattiti che attraversano il Giappone di oggi su quel Giappone di ieri. Un passato mai elaborato del tutto e che ha lasciato ampie sacche di non detto, di rimosso nella coscienza nazionale, tant’è che la Cina continua ad accusare Tokyo di non aver mai fatto una vera autocritica per misfatti come il massacro di Nanchino, centinaia di migliaia di vittime in pochi giorni per mano dell’esercito giapponese di occupazione, con uccisioni e stupri selvaggi di massa.
Muore una vecchia signora mai sposata di nome Taki, vissuta per i suoi ultimi anni in orgogliosa solitudine. Sarà il suo affezionato e cocciuto nipote Takeshi, brillante studente universitario, a scoprire tra le carte della defunta il resoconto dettagliato di un suo pezzo di vita, con una storia a suo modo straordinaria di cui Taki era stata non la protagonista, ma la testimone. Siamo al vecchio dispositivo narrativo del manoscritto ritrovato, di fronte al quale ammetto ho avuto una reazione di impazienza e quasi di rigetto, ma che devo dire ancora una volta fa la sua parte. Taki è una ragazza di uno sperduto e poverissimo villaggio: “Arrivavano dalle città a reclutare le più belle per farne geishe e alimentare i bordelli, ma io non ero abbastanza bella, così andai a Tokyo a servizio”. Prima da un eccentrico e assai libero di costumi scrittore, poi dalla famiglia che sarà il suo destino, i Masaki. Sono loro i proprietari della piccola casa dal tetto rosso del titolo, lui è un industriale del giocattolo, lei, la bellissima moglie, una madre perfetta e una squisita padrona di casa. Tra lei e Taki (che accetta la sua condizione di domestica con naturalezza, senza coltivare risentimenti verso i suoi datori di lavoro) si instaura qualcosa che somiglia alla complicità, se non all’amicizia, e che va oltre il classico rapporto padrone-servo. Tutto sembra procedere nell’ordine, senza scosse, finché la signora Masaki si innamora di un ragazzo di talento che è l’anima creativa dell’azienda del marito. Intanto, nel mondo là fuori, l’occupazione della Manciuria da parte dell’esercito solleva entusiasmi nell’opinione pubblica e un’ondata di nazionalismo dal quale pochi restano indenni. La signora Masaki non esita un momento ad assecondare la sua passione, a incontrare clandestinamento l’amante, a mettere a rischio sé, la propria immagine di donna onorata e perbene. La fedele Maki assiste al tradimento e alla possibile catastrofe di quella famiglia cui ha imparato a voler bene, facendosi complice della sua signora e insieme cercando di dissuaderla, senza riuscirci. Ci penserà poi la storia, attraverso la guerra, a sistemare drammaticamente le cose. Il tutto raccontato in flashback, a partire dalla lettura da parte del devoto nipote del manoscritto della zia. Assistiamo non solo al dipanarsi della storia d’amore e tradimenti nella piccola casa, ma anche agli incontri tra nipote e zia prima che morisse, ed è a questi momenti che il regista affida le sue riflessioni su quell’arco di storia patria. Maki, anima semplice (e viene in mente un’altra domestica, la Felicita di Un cuore semplice di Flaubert), di fronte al nipote che le ricorda gli orrori perpetrati dal Giappone in Manciuria e poi a Nanchino, replica che allora nessuno protestava per l’espansionismo giapponese, che nessuno sapeva, anzi erano tutti ebbri e entusiasti. Facendoci scorgere quel che già sapevamo, che i popoli, per quanto conculcati, spesso appoggiano i regimi autoritari che li opprimono (vedi Rebzo De Felice). Ed è una lezione di storia. “Anche a guerra cominciata cercavo di cucinare qualcosa di buono, di procurarmi cibo di qualità”, e il nipote: “Ma com’era possibile, con il razionamento che c’era?”. “Mercato nero”, risponde Maki all’attonito ragazzo, “bastava entrare nel negozio non dalla porta principale ma dal retro, e potevi avere tutto, bastava pagare”.
Così, impercettibilmente e quasi ingannandoci, The Little House ci trasporta nella tempesta d’acciaio del peggior Novecento nel mentre si presenta a noi come un vetusto mélo familiare. Con una regia sì convenzionale, e a momenti paratelevisiva (mi riferisco alla televisione com’era, non a quella delle serie innovative di oggi), ma che ha il massimo rispetto per i suoi personaggi e riesce a farceli amare. Solo che in quella giostra a volte impazzita che sono i festival non ho apprezzato e sono uscito sbuffando e deluso. Adesso, a un mese di distanza, The Little House non mi appare certo un capolavoro, però un film dignitosissimo di sicuro, di quelli che aprono finestre su mondi e storie che conosciamo poco, e che meritano dunque di essere visti. Stiamo a vedere adesso se troverà un distributore italiano.
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