Recensione. STORIA DI UNA LADRA DI LIBRI è tremendo. Come banalizzare e ridurre all’estetica del carino le peggio tragedie del Novecento

DStoria di una ladra di libri, un film di Brian Percival. Con Geoffrey Rush, Emily Watson, Sophie Nelisse, Nico Liersch, Joachim Paul Assböck.
DIn una Germania nazista e in guerra, tra tribolazioni di ogni tipo e Shoah incombente, la storia di una ragazzina che trova nella lettura la sua via di fuga. Già tremendo per come fa uso della cultura-feticcio, lo è ancora di più quando stende la sua estetica del caruccio e del bellino sopra i momenti più tragici. Questi sì che sono film immorali, perché finiscono coll’aggraziare e banalizzare il male. Voto 2
DTratto dal solito bestseller internazionale (mi pare made in Australia) venduto in qualche milione di copie, un film anodino, inodore e insapore, monumento al convenzionale e all’educatamente corretto, gonfio fino a esplodere di buoni sentimenti ed esemplare di quel gusto globale per il quale, volendo – con un film, un libro, un qualsiasi prodotto cosiddetto creativo – piacere a tutti, si finisce con il non accontentare davvero nessuno. Di quei prodottini virtuosi e carini anche quando sfiorano e trattano come in questo caso tragedie immani, tesi all’edificazione dello spettatore (o del lettore) e dunque senza più un’asprezza, senza punte, senza complessità. Un’operazione di basso beghinaggio intellettuale. Io film così li odio, più dei film brutti ma che almeno non fingono di essere altro, più dei film sporchi e cattivi e luridi, che almeno ti fan sentire il male al lavoro. Qui no, perfino il male subisce un processo di aggraziamento, di riduzione al carino, subisce l’appiattimento e la banalizzazione. In una Germania di un villaggio sfacciatamente ricostruito in studio (nello studio teutonico, anzi berlinese, di Babelsberg, oggi molto trafficato, dove tra l’altro di son girati di recente The Grand Budapest Hotel, La bella e la bestia e parte di Monuments Men), con casucce che sembran di marzapane, però le scritte son tutte ahinoi in inglese – e son sciattonerie e approssimazioni che oggi non sono più tollerabili sant’iddio! -, si srotola questa storia. Raccontata nientedimeno che dalla Morte, sì, sapete, quella signora in nero di solito raffigurata con la falce in pugno, alla quale chissà perché tocca di presentarci man mano i vari personaggi. Che sembrerebbe questa una trovata avanguardistica e coraggiosissima, invece non ce la fa lo stesso a togliere zucchero a questo filmuccio (e filmaccio) bonbon, anzi ne aggiunge perfino. Siamo nella Germania dei momenti peggiori, quella entre deux guerres, il periodaccio che sappiamo, la fame e la crisi di Weimar e poi i nazi al potere. Una povera madre con trascorsi se ho ben capito comunisti-spartachisti e dunque reietta e perseguitata, perché non è più tempo di rivoluzioni e adesso si profila la svastica – è costretta a vagare con i due figli tra il gelo e la neve, finché il bambino le muore di fame in braccio, e l’altra, la ragazzina Liesel, la deve abbandonare e dare in affido. Sarà una coppia, lui lavorante saltuario lei casalinga lavatrice e stiratrice per i sciuri, a prendersela in casa, lui mite e pacioso, ma dentro fatto di fil di ferro, lei apparentemente una strega, in realtà dietro a quel fare burbero e cinico un cuore d’oro. Lui ha perso il lavoro perché non ha voluto saperne di iscriversi al partito nazionalsocialista, lei si deve rompere la schiena per sopperire a quel mancato guadagno. Che poi, Liesel se la prendono in casa in affido perché poi si beccano un sussidio che fa comodo. Nonostante i modi bruschi della non-mamma che però vuol essere chiamata mamma, Liesel comincia a sentirsi a casa, ad affezionarsi al padre non-padre, alla nuova vita. Intanto scopre la passione della lettura, e per coltivarla sottrae libri, che poi restituisce, dalla ricca biblioteca del sindaco, per cui la mamma lavandaia e stiratrice lavora. Intanto, amicizia con il più vispo e ribelle e talentuoso ragazzino della classe, che pure lui di nazi non ne vuole sapere. Scoppia la guerra, gli uomini vengono chiamati al fronte, son cominciate intanto le persecuzioni antiebraiche e un ragazzo ebreo viene nascosto da Liesel e dai suoi in cantina. Ora, basta così, se no son spoiler, che oggi si perdona tutto a chi scrive di cinema in rete, anche che scriva da bestia e sbagli apostrofi e accenti e le doppie, ma non che faccia spoiler. Che volete, è una paranoia di massa ormai, e un po’ scema, come se il sapere come andavano a finire ci avesse impedito di leggere Anna Karenina o Il processo. Ma tiriamo avanti. La storia di una ladra di libri (in originale solo The Book Thief) – oltre alla messinscena improntata all’estetica del carino anche nei passaggi più tragici (e mi ha fatto venire in mente un altro tremendo film, quello ambientato nella Germania distrutta dell’immediato dopoguerra, Lore, con una ragazzina che ne vive di ogni ma è sempre così graziosa, ma così graziosa), oltre a mostrarci incredilmente uomini e donne travolti da guerre e persecuzioni però sempre agghindati con i costumi giusti come da manuale del bravo costumista -, non riesce nemmeno per un momento a infondere un minimo senso di realtà e di vita al suo racconto, limitandosi ad accumulare compulsivamente cliché e luoghi comuni. A eseguire un pigro ricalco delle molte narrazioni già conosciute sulla Germania in guerra. Anche la Shoah è ridotta a rappresentazione di maniera ad uso delle scolaresche svogliate condotte al cinema acciocché apprendano (ed è il peggior modo di far entrare davvero qualcosa in quelle testoline). Un pezzo di storia, e della più terribile del Novecento, ridotta a mera illustrazione, e questo sì che è eticamente scorretto e criminale. Perché depotenzia e banalizza il male e ce lo rende, subliminalmente, accettabile. Questi sono i film pericolosi, mica Nymphomaniac o le sinfonie del massacro di un Refn. Geoffrey Rush si aggira spaesato, forse consapevole della bufala. Emily Watson ce la mette tutta per dare spessore al personaggio della madre, ed è così brava che in certi momenti riesce a farsi prenders sul serio da noi, ma neppure lei più di tanto può fare.

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