I corpi estranei, regia di Mirko Locatelli. Con Filippo Timi, Jaouer Brahim.*
Un uomo venuto a Milano a far curare il suo bambino. Un ragazzo arabo che assiste un ricoverato. Ci si aspetterebbe che i due mondi si incrociassero, si scontrassero, si incontrassero, dando vita a una qualche traccia narrativa. Ma tra Antonio e Jaber ci sono solo vaghi contatti, interferenze, collisioni quasi non tracciabili. Mirko Locatelli sceglie la strada del minimalismo radicale, astenendosi da ogni elemento romanzesco. Ma così rischia di azzerare il suo film. Che però ha una sua rarefatta e austera bellezza. Un pudore, una misura rari nel cinema italiano. Con il miglior Filippo Timi da parecchio tempo in qua. Un film che crescerà nel tempo. Voto tra il 6 e il 7
Premessa: non conosco Mirko Locatelli, non siamo parenti (Locatelli è uno dei cognomi più diffusi del Nord Italia). Questo è il suo primo film che vedo, e che dire? I corpi estranei rasenta (quanto volutamente?) il non film, il cinema negato, punito, polverizzato. Se per cinema intendiamo, basicamente, una storia messa in immagini qui, semplicemente, non c’è storia e dunque non c’è cinema. Credo che Locatelli venga dal documentario, e qui continua a muoversi all’interno di quei codici, di quell’universo linguistico e stilistico. Riprendere il reale per ciò che è, senza aggiunte, orpelli e bellurie. Documentare, ossessivamente documentare. Come se non sapessimo che questo è illusione, e che anche il cinema documentaristico più estremo e oggettivo-fattuale è sempre intervento sul reale, distorsione necessaria del vero. I corpi estranei mi pare invece coltivi ancora il sogno di poter seguire e registrare il suo protagonista e le sue azioni per quello che sono e ci appaiono, senza forzarle. Con il risultato che per un’ora sappiamo poco o niente di lui, Antonio, e il film sembra non avere il minimo fremito, la minima pulsazione drammatica. Zero. Il massimo che Mirko Locatelli ci concede è Filippo Timi (Antonio) davanti a una macchinetta del caffè d’ospedale che si presenta tramite display con un “questa macchina ha un’anima”, dichiarandosi dispensatrice di bontà e di caffè equo solidale. Il che ti fa pensare a cosa sia giunto ormai il cretinismo politicamente corretto.
Dunque, Filippo Timi è Antonio, toscano di Pistoia venuto a Milano in un ospedale specializzato in cura dei tumori infantili. Il suo bambino, Pietro, è malato, ha un tumore al cervello, lo devono sottoporre a un intervento chirurgico. Poco o nulla ci viene spiegato, dobbiamo arrangiarci a estrarre qualche frammento di storia dai dialoghi smozzicati, da qualche scena o personaggio collaterale. L’austerità della messinscena è assoluta, che Bresson al confronto sembra un cineasta barocco. Corridoi, stanze d’ospedale, telefonate a casa, un’occhiata alla stanza vicina dov’è ricoverato un ragazzo arabo circondata dai familiari e amici. Ci sono delle interferenze tra il protagonista e Jaber, uno dei ragazzi arabi al capezzale del vicino. Jaber chiede spesso del figlio di Pietro. A questo punto ti dici: ecco, siamo alla svolta. Il regista vorrà dirci che una solidarietà e una comunicazione sono possibili tra persone e mondi estranei allorché si trovano a sfiorarsi e a condividere una comune esperienza di dolore. Magari ovvio, scontato, però una traccia narrativa. Macché, il rigore, il riserbo di Locatelli impediscono anche a questa possibile storia di prendere forma e corpo. Poi, dopo quasi un’ora e mezza, succederà qualcosa, e succederà quando Jaber si introdurrà di nascosto nella camera del piccolo Pietro. Non dico oltre, perché questo è l’unico punto in cui I corpi estranei potrebbe acquistare un senso e illuminare retrospettivamente quanto ha mostrato fino a quel momento. Anche se ancora una volta Locatelli si trincera dietro il suo pudore, nella sua anoressia, nel suo rigetto di ogni romanzesco. Certo, se il suo film voleva essere una finestra aperta sul mondo dei migranti e provocare empatia nei loro confronti, lo scopo non è raggiunto. Qui i migranti sono visti come profondamente lontani, altri, imbozzolati in strani e incomprensibili rituali e modi di vita. Per non parlare di quell’unguento (capirete vedendo il film) tra il magico e lo stregonesco. Si esce dalla visione come sospesi, e con in testa un giudizio che fatica a formarsi. I corpi estranei lascia addosso un senso di disagio, come di fluttuazione continua in un universo notturno e inconoscibile, un che di sunnambolico, di fantasmatico (affine in questo a un film che ho molto amato, il francese L’âge atomique). Oggi, a distanza di qualche mese da quando l’ho visto al Roma Festival, devo dire che quello di Mirko Locatelli mi appare oggi come un oggetto cinematografico di rara purezza, così estremo e coerente nel ripudio di ogni forma romanzesca, di ogni piacioneria e ruffianaggine, da rasentare eroicamente il suicidio, o il martirio. Che Mirko Locatelli è un autore da tenere sotto stretta osservazione e che potrebbe crescere parecchio. I corpi estranei ci mostra anche il migliore Filippo Timi da molto tempo in qua, trattenuto, alieno da ogni gigionismo, di una intensità rara per il nostro cinema. Musiche dei Baustelle.
* questa recensione riprende in parte quanto ho scritto lo scorso novembre dopo la proiezione del film al Festival di Roma.
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