Alla ricerca di Vivian Maier (Finding Vivian Maier), un film di John Maloof e Charlie Siskel. Con John Maloof, Mary Ellen Mark, Phil Donahue, Vivian Maier. Documentario. A Milano al Cinema Beltrade. Per le altre città, consultare la pagina Facebook Alla ricerca di Vivian Maier. Distribuzione Real Cinema Feltrinelli.
Un documentario appassionante come un detective story. Chi era Vivian Maier? Perché per una vita ha scattato migliaia di fotografie meravigliose senza mai mostrarle a nessuno? Perché si è nascosta dietro una vita anonima di bambinaia? Tutto parte dalla casuale scoperta in uno scatolone di migliaia di negativi, e da lì comincia la ricerca di un ragazzo di Chicago di nome John Maloof. A poco a poco il puzzle Vivian Maier (quasi) si ricompone. Voto 7

i due registi, John Maloof (a sin.) e Charlie Siskel intervistati al New York Festival da Michael Moore.
Ma sì, una storia straordinaria, quella raccontata in questo documentario, e anche se son restio a usare simile aggettivazione tonitruante stavolta non posso farne a meno. Storia vera verissima, signore e signori. Così appassionante e strana da sembrare impossibile e invece no, a conferma che la vita, la realtà, è proprio un romanzo (qualche volta almeno, il più delle volte no purtroppo). Storia che è quella di una donna americana di nome Vivian Maier, di professione bambinaia e però indefessa street photographer, una che con la sua Rolleiflex – l’obiettivo ad altezza di ombelico le consentiva di scattare senza farsene accorgere – ha realizzato tra anni ’50 e ’60 decine di migliaia di foto per le strade di New York e soprattutto di Chicago, le città in cui ha più abitato e lavorato. Storia che è anche (soprattutto?) quella del film, di chi il film lo ha fatto, il duo John Maloof e Charlie Siskel (produttore di Bowling to Columbine e sodale di Michael Moore). Storia che è anche la ricerca dei due su di lei, Vivian la misteriosa, la sfuggente, e in particolare di Maloof che, ragazzino in Chicago, volendo documentare per un libro la storia del suo quartiere, si mette alla caccia di foto che la possano ilustrare e, già frequentatore di aste (bisogna averci la passione, come per i robivecchi), si aggiudica un giorno una cassa di negativi che spera sia quanto sta cercando. Sviluppando si rende conto di aver messo le mani su qualcosa di importante, forse strabiliante. Parte del lavoro di una signora chiamata Vivian Maier, conosciuta nella sua vita come nanny e mai come fotografa, che le sue immagini (meravigliose) non le ha mai fatte vedere a nessuno, le ha sempre tenute nascoste. Secretate. Son foto perlopiù di gente working class, poveri, bambini, molta gente black, con qualche escursione nelle strade e nelle antropologie eleganti e nell’high class. Tutte rigorosmente prese per strada, quasi sempre all’insaputa dei soggetti-oggetti. Maloof ramazza altri scatoloni, altre cose che eran state di Vivian Maier, e non solo foto, anche oggetti personali e pure apparenti quisquilie (la signora, scomparsa nel 2009, era una raccoglitrice-consevatrice-archivista compulsiva di biglietti del tram, del cinema, fogli, foglietti, giornali e quant’altro), e comincia a essere inghiottito dalla forza di quel personaggio che non ha mai conosciuto, ma che ora ha incontrato attraverso il molto, il moltissimo, l’enorme che ha lasciato. Alla ricerca di Vivian Maier racconta lei e racconta Maloof folgorato, forse per sempre, da lei, con il rischio che da qui all’eternità rimanga per tutti colui-che-ha scoperto-Vivian-Maier. Sì, Maloof, con il suo socio Siskel, ci mostra gli scatti di Vivian, e molti sono una meraviglia, ma non si limita a quello. Ormai posseduto (e noi spettatori con lui), vuole sapere tutto e di più di colei che è diventata la sua, non si sa quanto magnifica, ossessione, e si mette, partendo da labili indizi, da un necrologio, da scarni appunti, da labili tracce documentarie, alla ricerca di chi l’ha conosciuta e potrebbe aver condiviso un pezzo di vita con lei. Saltan fuori soprattutto i bambini, ora grandi, che l’hanno avuta come istitutrice, salta fuori un’amica – sempre che si potesse esserlo, amica, della sfuggente e segreta Vivian. Che la dipingono tutti come essere misterioso che nulla diceva e divideva di sé, eccentrica come nanny (portava volentieri i pargoli a lei affidati nei bassifondi della città) e infaticabile, compulsiva fotografa con la sua Rolleiflex perennemente appesa al collo, perenemente pronta. Con alcuni lati dark. Nella sua stanza, dove accumulava di ogni, nessuno poteva entrare, nemmeno i suoi datori di lavoro, e qualche (ex) infante ricorda di come usasse con loro le maniere forti, con una preoccupante inclinazione sadica. E poi, perché mai ritagliava dai giornali i pezzi di cronaca nera nerissima, quella con i peggio fatti di sangue? Come mai era così attratta, lei apparentemente tanto irreprensibile, dal versante oscuro e perfino osceno dell’esistenza e delle esistenze? Poco si sa di lei. Pare che la madre (francese) l’avesse tirata su senza marito, e che come capofamiglia figurasse una donna, la fotografa Jeanne Bertrand. La qual cosa spiegherebbe come la giovane Vivian avesse imparato a scattare e insieme suscita qualche interrogativo su quel tipo di famiglia. Con la madre per qualche anno Vivian va a a vivere in un villaggio in Francia, dove quasi scorderà l’inglese. Poi sarà ritorno a New York, e lì la decisione di fare la nanny, un lavoro che le avrebbe lasciato del tempo libero per scattare, ossessivamente scattare. A guardarla, nelle non molte foto rimaste di lei, ci appare (come anche dalle descrizione che ne fanno i suoi ex bambini), come un tipo severo, di femminilità castigata e nascosta in impermeabili di foggia maschile, e scarpe agli antipodi di ogni vezzosità. Con un che della Greta Garbo in incognito degli anni Cinquanta e Sessanta. Con un che di Patricia Highsmith. Il film ci mostra le tante immagini che lei ha colto per strada, ci svela pezzi della sua vita, ma non può spiegarci come mai Vivian non abbia mai fatti niente per far conoscere al mondo il suo lavoro. Non aveva abbastanza fiducia nelle proprie capacità? Temeva la luce, come a voler nascondere qualcosa? O percepiva oscuramente che un giorno quel patrimonio sepolto sarebbe comunque venuto alla luce? Alla ricerca di Vivian Maier ha il merito di strutturarsi come una quest, una detection. Maloof e Siskel usano i modi e le forme narrative della classica detection story, costruiscono il racconto di una ricerca in cui il santo Graal è Vivian, o meglio la sua identità, la sua essenza rimasta nell’ombra. Il regista come detective, per dirci che in fondo il cinema è, sempre, ricerca e qualche volta ritrovamento di una segreto, disvelamento di un mistero. Operazione assai ben condotta, che rende Finding Vivian Maier irresistibile e altamente godibile per lo spettatore, tant’è che ai festival dov’è stato presentato – la Berlinale e il New York Festival – ha ottenuto un gran successo di pubblico, e adesso che è nelle sale americane sta realizzando più che discreti incassi. Intanto, Vivian Maier è diventata un’icona per il pubblico sensibile agli eventi e anche alle mode culturali e alle loro increspature, le mostre con i suoi ritratti di strada attirano folle, le sue quotazioni salgono. Ma è questa assoluta perfezione costruttiva del film a lasciare perplessi. Come se dalla narrazione fossero rimasti fuori, se non espunti, elementi incongrui che avrebbero potuto intaccarne lo smalto. Vien da chiedersi quanto sia vera la Vivian Maier che vediamo sullo schermo e quanto sia invece il risultato della macchina produttrice di mito che i due registi, in particolare Maloof (nome mi pare libanese, o sbaglio?), hanno abilmente messo in moto. Ecco, alla fine mi son chiesto quanto davvero sia grande la fotografa VM. Non sono un esperto di fotografia, del resto è una forma d’arte e comunicazione che non ho mai amato particolarmente. Posso dire solo che gli scatti di Vivian son belli e però non così nuovi, non così originali, forse un po’ derivativi. O mi sbaglio? Sarà per quello, e non (come il film suggerisce) per conservatorismo e insensibilità verso il nuovo, che le istituzioni culturali acclarate finora non l’hanno accolta nell’olimpo?