LOCKE (recensione). Grande film davvero. La notte cruciale di un uomo solo. E onore a Tom Hardy

locke-tom-hardy-in-una-scena-tratta-dal-film-284373Locke, regia di Steven Knight. Con Tom Hardy. Voci (nell’originale) di Olivia Colman, Ruth Wilson, Andrew Scott, Ben Daniels, Tom Holland.*
110514_galUn uomo nella notte alla guida della sua macchina corre il più veloce possibile verso Londra. Intanto parla in vivavoce con la moglie, i figli, i colleghi, il capo e una donna che sta per partorire. Non c’è altro, eppure questo è uno dei film più avvincenti che siano stati dati al Venezia Festival appena concluso. Un capolavoro di sceneggiatura. Un uomo che si gioca la sua vita in una notte. Tutto girato in tempo reale. C’è solo Tom Hardy, però che attore. Da Oscar, per davvero. Voto 8.

Il regista Stephen Knight sul setMeraviglia. Il film che ha fatto esplodere in un applauso infinito lo scorso settembre il pubblico pagante della Sala Grande al Palazzo del cinema. Il più calorosamente accolto, il più amato di Venezia 70 dopo, ovviamente, il paraculissimo Philomena di Stephen Frears. Purtroppo fuori concorso, ché un premio lo avrebbe meritato. Tutti e due – Locke e Philomena – inglesi, e potrebbe non essere solo una coincidenza, ma il segno di un cinema che sa raccontare storie come pochi altri. Qui si resta inchiodati alla poltrona per un’ora e mezza, eppure c’è solo un attore in ballo, l’azione sono le sue parole e quelle dei suoi interlocutori al telefono. Il verbo si fa cinema, il cinema è verbo. Steven Knight, già esimio autore di sceneggiature – sua quella di La promessa dell’assassino di David Cronenberg – al suo secondo film da regista fa centro e sbalordisce per la sagacia della costruzione, lo script senza la minima falla, pure per il coraggio quasi sperimentalista. Perché Locke di arditezze ne esibisce più d’una. Tutto girato difatti in tempo reale, riprendendo un uomo – e nient’altro che quest’uomo – alla guida della sua macchina mentre, di notte, cerca di raggiungere al più presto Londra e interloquisce al telefono in vivavoce con svariati personaggi che man mano scopriremo. Virtuosismi, prove di bravura di script e messinscena in cui Knight riporta alla sua e nostra memoria illustri fantasmi del passato e sembra sfidarli. La Barbara Stanwych al telefono, immobilizzata a letto e minacciata da un misterioso assassino, in Il terrore corre sul filo di Anatole Litvak. La Anna Magnani altrettanto sola e telefonante di La voce umana di Rossellini da Cocteau. Anche in Locke basta un’unica presenza umana, la sua voce, le voci degli altri per creare una narrazione travolgente. Ivan Locke è un uomo più vicino ai quaranta che ai trenta, di una rocciosità e virilità senza equivoci, ma anche con le infinite sottiglienze e sfumature che gli presta Tom Hardy, attore grandissimo almeno dai tempi del memorabile Bronson di Refn, e che qui torna ai quei livelli dopo qualche film non all’altezza del suo talento e della sua debordante presenza schermica (penso a Lawless e al tremendo Una spia non basta). Lo vediamo e sentiamo mentre a bordo della sua macchina torna veloce dall’hinterland verso la capitale. I due figli lo aspettano per vedersi insieme la partita in tivù, la moglie sta preparando la cena. Ma lui non tornerà a casa, e non è per problemi professionali anche se Ivan, direttore di cantieri edili al livello massimo, è alla vigilia della più grande impresa della sua carriera: la colata imponente di concrete, di calcestruzzo insomma, però concrete è una parola meravigliosa e insostituibile, per le fondamenta di un grattacielo. La famiglia stasera e, il giorno dopo, quell’impresa titanica. Solo che lui diserterà l’una e l’altra. Il telefono impazzisce. Le voci si susseguono e si alternano, sempre più concitate. Scopriamo che una donna lo aspetta in una clinica di Londra dove sta per partorire. Sì,  è rimasta incinta di Ivan nell’unico stupido tradimento che lui si è concesso dopo anni lunghi di fedeltà matrimoniale assoluta. Lo spiega a se stesso, lo spiega alla moglie. Inutilmente. La cosa è capitata una sera, dopo una giornata di lavoro in un cantiere di provincia, è capitata con una collega del posto, una donna neanche più tanto giovane, nanche tanto bella. È capitata e basta, e lei è rimasta incinta. A 43 anni, e ha voluto tenerselo quel bambino. Ivan a quel parto vuole esserci al parto, anche se non vuole mollare la famiglia, vuole esserci perché lui è il figlio di una madre single e sa cosa vuol dire non avere un padre. Non vuole che la storia si ripeta. Intanto, si apre la crisi sul fronte lavoro. Quando Ivan avverte il suo boss che non ci sarà a quella colata di concrete, le reazioni saranno pesanti. Concitati dialoghi con un suo collaboratore che dovrà sostituirlo. Sono, quando si parla di calcestruzzo, incredibilmente le parti più belle di questo bellissimo film. Il concrete è anche la concretezza, la materialità di un lavoro, di un modo di lavorare e faticare ormai scomparsi dai radar, obnubilati dal fighettismo creativista dilagante di non lavori e lavoretti vari del cazzo. Qui signori si parla di cantieri, palazzi da costruire, di cemento e malta e quant’altro, di muri e mattoni e il nostro adorato Ivan Locke di quel concrete parla con amore, trasmettendocene la palpabilità, la densità, la matericità e, ebbene sì, la sensualità. No, i dialoghi più appassionanti non sono con la moglie o con la signora a lui quasi sconosciuta che sta per mettere al mondo un figlio suo, sono quelli con il tizio che l’indomani prenderà il suo posto al governo di quella storica colata, sul come e cosa fare e cosa non fare, e la massima suspense è quando Ivan lo manda a caccia nella notte (a piedi!) di manovali polacchi, i soli a poter risolvere l’indomani un problema quasi irresolubile. Questo è il mondo di un uomo che ancora conosce il lavoro vero, sudore e calli, mica la virtualità della nostra cretina ipermodernità, che difatti si sta facendo fregare da chi ancora suda, come i cinesi. Locke è anche un inno all’essere uomini, intendo maschi, al maschio che sa essere un vir senza vergognarsene, e essere vir significa, come Ivan, avere il coraggio di giocarsi la propria vita. Significa, di fronte al bivio, anzi al trivio – il lavoro, la famiglia, quel bambino in arrivo da un’altra donna – fare semplicemente la scelta più giusta, non la più conveniente. Un film che non si può non amare, e – rupensando a Venezia – è proprio un peccato caro Barbera che non sia finito in concorso, ché un qualche premio se lo poteva portare via. Magari la Coppa Volpi allo straordinario Tom Hardy.
*questa recensione è la versione rivista di quella scritta dopo la proiezione del film al Festival di Venezia.

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