The Iron Ministry di J.P. Sniadecki. Documentario. Cina-Stati Uniti, 82 min. Concorso internazionale.
Tre anni passati da un regista del Michigan sui treni che percorrono il continente Cina. Ne esce un gran documentario, anche visualmente potente, su cosa sia davvero la Cina oggi, sogni, bisogni, aspettative, delusioni e un qualche barlume di dissenso. Vagoni rigurgitanti di cose, persone e animali. Una vitalità che la illanguidita Europa se la sogna. Voto 7 e mezzo
J.P. Sniadecki chi? Solo leggendo la sua bio nelle note festivaliere mi son reso conto di avere già visto prima di questo The Iron Ministry due suoi film, entrambi documentari come questo girati in Cina, entrambi assai lontani dalla medietà e con un’abilità insolita nell’incrociare linguaggi e stili. Il primo: People’s Park, proiettato tre Locarno fa nella sezione se ricordo bene Cineasti del presente, film che mi colpì per il suo virtuosismo e il suo radicalismo: un solo piano sequenza di 75 minuti, senza uno stacco che è uno, in cui la macchina da presa girava per un parco di una città della Cina profonda a riprendere balli, canti, passeggiate, bevute di tè. Non mi pare che il critico medio festivaliero allora se ne fosse accorto. Aveva impressionato decisamente di più invece il successivo Yumen, presentato alla Berlinale 2013 sezione Forum e poi girovagante in parecchi altri festival, compreso il Milano FilmMaker. Tra videoart, documentario, cinema di racconto e finzione, Yumen si svolge in una sperduta e perduta ghost town cinese dove prendono corpo storie e fantasmi del passato. Un’esperienza filmica anche questa fuori dall’ordinario.
Sia in People’s Park che in Yumen Sniadecki – originario del Michigan ma parecchio addentro nella realtà cinese dove credo abbia vissuto -, aveva condiviso il lavoro di regia con altri, stavolta invece questo The Iron Ministry lo firma tutto da solo, ed è un’eccellente riuscita. Tre anni di riprese sui treni che percorrono in su e in giù il continente Cina, e il risultato è un film stratificato, il miglior docu che io ricordi su quel paese entrato in una ipermodernità convulsa e per noi anche incomprensibile. Film visualmente potente e inventivo (la parte iniziale, astratta come il finale dell’Eclisse di Antonioni, meriterebbe da sola un premio). Treni rigurgitanti di cose, persone, animali. Un bambino sdraiato lassù sul portabagagli che si esibisce in un monologo sul treno e chi lo occupa degno di uno stand-up comedian. Passeggeri che han storie da raccontare, e son storie che meritano di essere ascoltate. Un cinese musulmano (“siamo in tanti anche nella mia città, quando ci son le feste siamo trentamila a riunirci”), una tibetana (“l’arrivo dei supertreni ha stravolto il Tibet”), due donne che lavorano in fabbrica e si scambiano dettagli sui rispettivi stipendi, quattro ragazzi che si interrogano sulla democrazia, sul miracolo economico e vorrebbero più libertà (e sarebbe, la loro conversazione, da allegare quale commento all’attuale, bruciante dibattito su compatibilità tra democrazia e sviluppo economico innescata da una controversa intervista rilasciata dal primo ministro ungherese Viktor Orban). Finalmente un film che ci va vedere la Cina oltre i cliché di ieri, oggi, fors’anche di domani. Che va in cerca delle voglie di democrazia e di quel che si sta muovendo nalla pancia e nella testa del paese. Difficile dimenticare quelle facce, quei vagoni formicolanti e rigurgitanti, di cui ti par sentire l’odore. Quella vitalità inesauribile, così diversa dal senso di decadenza che si avverte in ogni angolo d’Europa. Un film che fila via veloce come i suoi treni e che, passando dai vagoni proletari a quelli riservati ai nouveaux riches, sembra riprodure inconsapevolmente la struttura e la progressione narrativa di Snowpiercer. Chisà se la giuria, presieduta da un documentarista, Gianfranco Rosi, lo inserirà nel palmarès.
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