Una promessa, un film di Patrice Leconte. Con Alan Rickman, Rebecca Hall, Richard Madden.
Germania 2012. Friedrich si innamora delle giovane moglie del padrone. Quando verrà mandato in Messico lei gli promette che al suo ritorno gli si concederà. Ma la Storia (capital letter!) scompaginerà i piani. Tratto da Stefan Zweig, senza però che dello scrittore viennese ci sia la nostalgia, il tono crepuscolare, il senso di perdita di un mondo. Solo un period drama illustrativo con tanto bel mobilio d’epoca e tanti cappellini. Occasione sprecata. Voto 4 e mezzo
Arriva solo adesso questo Una promessa visto nel settembre 2013 fuori concorso al Venezia Film Festival, enon proprio memorabile. Eppure sulla carta sembrava interessante, perché, come The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, arrivato sull’onda della rinnovata attenzione del cinema all’opera di Stefan Zweig, scrittore viennese di immenso successo entre deux guerres e poi man mano scomparso dai radar, trascurato dai critici e non più letto o quasi. E però, Zweig, presenza sotterranea mai cancellata davvero, con le sue opere che carsicamente, dopo essersi inabissate, riaffiorano quando meno te l’aspetti. Et pour cause. Zweig è, con i suoi infiniti racconti (romanzi solo uno, se ricordo bene, più un memoir che è il suo capolavoro, il magnifico, indispensabile Il mondo di ieri), un serbatoio inesausto di storie, è un narratore, un gran seduttore e virtuoso dell’arte dello storytelling. Dunque rispetto a Una promessa le aspettative erano piuttosto elevate, anche per il credito acquisito via via nel corso della sua carriera dal suo regista Patrice Leconte, l’autore per capirci di Il marito della parrucchiera, La ragazza sul ponte, Monsieur Hire (bravo, ma in my opinion un filo sopravvalutato). Invece a Venezia delusione grande. Un prodotto avvizzito, in cui, come nei peggiori period drama che approdano su grande e meno grande schermo (qui siamo tra Belle Epoque, grande guerra e anni immediatamente postbellici tra Germania e America latina, ma soprattutto la prima) la confezione e la cornice, intesa come accumulo compulsivo di mobilio e costumi e altre preziose cianfrusaglie, finisce con il soffocare quel che è l’oggetto del racconto, i personaggi, i loro destini. Ogni palpito, ogni fremito, ogni accenno di vita viene depotenziato e ridotto a mera esteriorità, a sfilata di sontuosi vestiti per lei, finanziere e frac e doppipetti per lui, e tende, tappezzerie, tabacchiere e quant’altro. Oltretutto, senza il genio di un Visconti e nemmeno di un Bolognini, e senza il camp zeffirelliano. Una noia, ecco. La storia, dite? Già, la storia. Germania, anno 1912. Friedrich, un giovane uomo di origine modesta ma voglioso di farsi largo nella vita, viene assunto come contabile da un potente signore dell’acciaio (cosa ci può essere di più tedesco di una acciaieria?). Che lo prenderà a benvolere, lo promuoverà, ne farà il suo assistente personale al punto da prenderselo in casa propria, che è ovviamente una sontuosa magione. Dove Friedrich finirà con l’innamorarsi di Lotte, la giovane e bellissima, e non felice, moglie del padrone. Ma è un amore che non può materializzarsi, ostacolato com’è dal matrimonio di lei e dal senso dell’onore e del decoro sociale di entrambi. Finché Friedrich verrà mandato in Messico dal boss a seguire i lavori d’estrazione di una miniera di ferro, e i due aspiranti amanti devono separarsi. Ma Lotte promette a Friedrich che, al suo ritorno, di lì a due anni, lei gli si concederà. Solo che scoppia la guerra, il ragazzo resta confinato in Messico senza poter pià tornare in Germania, e quando ci torna, a guerra finita, scoprirà che niente potrà più essere come prima. L’impossibilità dell’amore, una costante in Stefan Zweig, come in uno dei suoi racconti più famosi, Lettera da una sconosciuta. Traiettorie che non riescono a convergere e incrociarsi. Come sempre nello scrittore viennese, c’è il senso della perdita di un mondo, l’ineluttabilità della fine, la consapevolezza che i sentimenti, e gli individui, non possono arginare la Storia e anzi ne sono travolti. Ma di tutto questo traspare poco nel film di Leconte, che si riduce a una messinscena corretta e senza voli, senza un guizzo. Ne vien fuori un medio e anche mediocre film per signora da domenica pomeriggio, elegantemente impaginato, con tanti bei vestiti come in una sfilata vintage, ed è tutto. Un film spento e museificato. Un’occasione buttata via. Di Zweig bisogna afferrare le dinamiche profonde, come ha fatto Wes Anderson, non ci si può limitare come in questo caso alla mera illustrazione. Rebecca Hall, vista a suo tempo in Vicky Cristina Barcelona, è Lotte (gossip minimo: è figlia di uno dei registi storici della scena londinese, Peter Hall, ed è stata legata recentemente a Sam Mendes).
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