Polisse, la7, ore 0,20.
Ma perché un bel film come questo ha resistito sì e no nei cinema italiani una decina di giorni? No, non è censura del mercato, non è colpa della disribuzione. È che il pubblico non è andato a vederlo. Purtroppo. Forse perché da noi lo spettatore arthouse (insomma, d’essai), che è quello di riferimento di Polisse, non ama i film con i poliziotti buoni, li ritiene sconvenienti e poco chic, preferisce le cose tipo ACAB dove gli sbirri son delle carogne. Peccato. Perché Polisse è un bell’affresco di una squadra di agenti che si occupa di minori e dei loro problemi. Ma le difficoltà, per questi poliziotti, sono anche private. Da recuperare alla prima occasione.
Polisse, regia di Maïwenn. Con Karin Viard, Joeystarr, Marina Foïs, Nicolas Duvauchelle, Maïwenn Le Besco, Karole Rocher, Emmanuelle Bercot, Frédéric Pierrot, Arnaud Henriet, Naidra Ayadi, Jeremie Elkaim, Riccardo Scamarcio, Sandrine Kiberlain.
(questa recensioneè stata scritta all’uscita del film nelle sale italiane)
Non ce l’avevo fatta a scrivere di questo Polisse prima di partire per il festival di Berlino, e adesso che sono tornato il gran bel film poliziesco, e solo qua e là un filo poliziottesco, della francese Maïwenn è già scomparso dai cinema di Milano e suppongo del resto dell’Italia. Pensare che a Cannes era piaciuto a tutti e si era portato via il premio speciale della giuria, e che in Francia ha avuto un successo di pubblico oltre ogni aspettativa, con incassi da miracolo. Com’è possibile questo flop italiano? Eppure il film è bello parecchio, sa usare al meglio le convenzione del film di polizia e sulle squadre di polizia (e della serialità tv), senza rimanerci incastrato, ma anzi dandoci l’impressione di raccontarci davvero qualcosa di interessante, di palpitante e molto vicino alla realtà. Mi aspettavo, se non un successo travolgente, almeno una buona tenuta nel circuito arthouse, in quelle sale che attirano un pubblico urbano middle classe e anche un po’ oltre, più acculturato della media e anche con maggiore disponibilità economica (insomma, il profilo dello spettatore degli ex essai). Ma evidentemente questo pubblico, che pure esiste anche se non numerosissimo, premia film molto politically correct e mai troppo eccentrici, film che ottengono l’ìimprimatur ufficiale e il visto di quei due-tre quotidiani nazionali che conosciamo e che contano e sanno influenzare le opinioni, e si astiene da un film di poliziotti, sempre sospetto di essere un prodotto di genere (anche de-genere), dunque di serie B, e quel pubblico un tempo gauche caviar e assai perbene tutto soppporta, ma non il cinema-bis. Da noi, lo insegnano titoli come ACAB e l’imminente Diaz – Don’t clean up this blood, dei poliziotti al cinema non si può parlare bene ed è anzi obbligatorio parlare malissimo, altrimenti si rischia di passare per gente di destra e sono guai, al massimo gli sbirri li si sopporta nella serialità tv, ma tanto si sa che la tv nei salotti bon ton non la si guarda più (e semmai non si guarda quello). Cerco di capire, di darmi delle spiegazioni alla sparizione repentina di Polisse. Questa recensione finisce con l’essere tutta ex post: dopo l’uscita e la subitanea scomparsa dai cinema dell’oggetto del suo discorso. Peccato. Che l’abbia rovinato anche il doppiaggio un film così, in cui la fragranza del parlato conta molto? Quando l’avevo visto qui a Milano nella rassegna di Cannes ero rimasto molto ben impressionato da quel coro di voci che si sovrapponevano-incastravano, e chissà quanto si sarà perso nel mai abbastanza deprecato e maledetto doppiaggio (non è per snobismo, ma il dubbing è una pratica barbara che snatura i film, non è più ammissibile). Polisse ci porta dentro le storie, le dinamiche interne, la giostra dei fatti e dei personaggi della squadra di tutela dei minori della polizia di Parigi. Agenti uomini e donne (molte) che si ritrovano a che fare con storie e storiacce quasi insostenibili, bambini e bambine abusati sessualmente dal padre, dai nonni, e madri incredule che non possono e non vogliono capire e ammettere, bambini abbandonati da madri sole che non ce la fanno a mantenerli, ragazzine sessualmente precoci e sboccate e avviate su una strana di autodissoluzione psichica e sociale. Dall’altra parte ci sono loro, quelli della squadra. Ragazzi e ragazze del coro che fanno tutto quello che possono e delle volte pure qualcosa di più, con storie private complicate, i matrimoni alla deriva, le solitudini, anche la sofferenza e la difficoltà a trangugiare e digerire ogni giorno quella galleria di orrori che si ritrovano a fronteggiare. Un film che sembra respirare, da tanto è naturale, un risultato davvero notevole da parte della giovane Maïwenn, 35 anni, che di cognome fa Le Besco e che ha una sorella pure lei attrice-regista, Isild Le Besco. Gli attori e le attrici in Polisse (che poi è come enfaticamente pronunciano la parola Police gli immigrati soprattutto dall’Africa) sono uno meglio dell’altro, anche se io ho una preferenza per Karin Viard (era la segretaria perfetta in Potiche di Ozon) e per Karole Rocher, che in Le nevi del Kilimangiaro di Guédiguian era la madre giovane, troppo giovane, al centro di una scena memorabile. La regista Maïwenn, una che viene da una storia familiare complicata, che ha incominciato a recitare già a tre anni subendo le pressioni psicologiche di una madre che attraverso di lei voleva realizzare i suoi sogni di star mancata (siamo dalle parti di Black Swan), che a 16 anni si è sposata con Luc Besson e da lui ha avuto una figlia, in questo film riserva per sè la parte di una fotografa che ha l’incarico per conto del ministero di testimoniare le operazione della squadra e che, pur nel suo mutismo e nel suo distacco, finisce con l’essere travolta da quel gorgo, da quella vita, da quel gruppo. Molla il marito, che è poi un Riccardo Scamarcio quale fotografo italiano a Parigi, e si infila nel letto del leader del gruppo, un poliziotto di origine magrebina rude e di gran cuore. Misalliance!, come avrebbero detto ed esecrato le vcchie zie. Peccato che gli spettatori italiani non abbiano avuto il tempo di scoprirlo, questo piccolo ma bel film (che se ha un torto e un limite, è che una regista donna si occupi sì di polizia, ma di polizia addetta ad affari infantili, che è come le ministre che anziché di interni o economia devono occuparsi di pari opportunità: un ghetto). Però è anche colpa loro, degli spettatori intendo, smettiamola di incolpare il sistema della distribuzione che favorirebbe solo le grandi produzione e penalizzerebbe i film meno forti. L’amara, amarissima verità è che il pubblico certi bei film non li va a vedere, tutto qui. Solo pensando agli ultimi mesi mi vengono in mente tra quelli male amati dagli spettatori Bronson di Refn, Enter the Void di Gaspar Noe e Melancholia di Von Trier. Titoli grandissimi, semplicemente ignorati anche dal pubblico già radical-chic che pure pensa di fare sempre le scelte migliori e più intelligenti.
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