Recensione: TAKE FIVE. La banda del buco in versione pulp-napoletana. Ottima la prima parte, non la seconda

10704097_656218884484949_5103544649103891998_nTake Five, un film di Guido Lombardi. Con Peppe Lanzetta, Salvatore Striano, Salvatore Ruocco, Carmine Paternoster, Gaetano Di Vaio, Gianfranco Gallo, Antonio Pennarella, Esther Elisha, Emanuele Abate.
10690093_661826873924150_5570727462038681057_nIn una Napoli livida, dominata dalla criminalità più o meno organizzata, si mettono insieme in cinque per un colpo a un caveau. Si passa dalle fogne, si fa il classico buco. I guai cominciano dopo il colpo, con problemi interni ed esterni alla banda. Come nelle Iene di Tarantino, come in Rapina a mano armata di Kubrick. Guido Lombardi, un altro nome della scuola napoletana, ha un alto senso dello stile e nella prima parte confeziona qualcosa di importante. Solo che nella seconda affiorano troppe incongruenze e illogicità. Ma Take Five resta, anche se a metà, un film notevole. Voto 7 meno
10443248_656175791155925_6315777349133226085_oGran talento, Guido Lombardi. Ascrivibile a quella scuola napoletana che vede tra i fondatori Antonio Capuano e, ebbene sì, Mario Martone, e da cui discende anche Paolo Sorrentino. Il suo primo film Là-bas, premio Opera Prima-Luigi De Laurentiis a Venezia qualche anno fa, era notevolissimo benché quasi non visto in sala, una plumbea, corrusca storia nera di immigrati africani in una desolata, infelicissima landa campana genere Castelvolturno, tra cosche malavitose e violenze esterne ma anche minacciosamente interne agli immigrati. Lombardi conferma di essere uno che ci sa fare, e con una sua visione forte del cinema, in questa opera seconda, dove continua con il vezzo del titolo in lingua straniera (Take Five è un classico jazz di Dave Brubeck) per una storia che è poi iper napoletana, fortemente calata nella cultura dei quartieri spagnoli, dei vicoli, delle zone suburbane dove lo stato non c’è e la legge è quella del malaffare e dei clan. In una lingua neopartenopea che a me, lombardo, risulta ostica, estranea e incomprensibile quanto l’urdu o lo swahili, e dunque ben vengano ogni tanto i sottotitoli a fare un po’ di luce nelle tenebre di dialoghi strettissimi e veloci. Un film che nella sua prima parte è davvero ottima cosa, tra le migliori che ci abbia dato il nostro cinema in questo ultimo anno, ma che poi purtroppo si perde in un labirinto di colpi e controcolpi di scena e twist complicati e soprattutto inattendibili. Sceneggiatura difettosa, ecco, ed è un peccato, perché con un’attenzione maggiore in fase di script, con una maggiore coerenza drammaturgica, avremmo avuto un film importante. Così non è, ma accontentiamoci del molto di buono che Take Five comunque ci serve. Un idraulico addetto alle fogne napoletane vien chiamato a sistemare una falla maleodorante nel caveau di una banca. Siccome è inguaiato con un capataz della mala per via di un ingente debito di gioco – il nostro ha il vizietto del poker versione Texas Hold’em -, gli vien l’idea di un colpo lì, in quel caveau, passando dai cunicoli fognari, che peraltro lui conosce in ogni anfratto, tunnel, tombino, passaggio. Si fionda da un ricettatore di piccolo calibro, e però con agganci in tutta la rete illegale della città, e gli propone l’idea. Accettata. Il ricettatore passa al reclutamento, alla costruzione della banda. Loro due, ovvio, cui si aggiungono un artista dello scasso chiamato Sciomèn ora in disarmo e in preda a depressione e impasticcamenti vari, un fotografo di modelle parecchio escort e pornificanti, e infine il nipote del ricettatore, un pugile radiato e costretto a combattimenti clandestini all’ultimissmo sangue. I cinque non magnifici sono combinati, non resta che passare all’azione là sotto nelle fogne. Da lì i cinque fanno il buco, come da classica tradizione (anche cinematografica, da Il buco a I soliti ignoti) e prelevano il malloppo, qualcosa valutabile, tra gioielli e contanti e oro lingottesco, sul milione. Ma subito dopo cominciano i guai, come ci ha insegnato il Quentin Tarantino di Le iene e, prima ancora, lo Stanley Kubrick dell’archetipico e seminale Rapina a mano armata. Un po’ per via della sfiga e degli imprevisti, molto per l’avidità dei cinque, tutto rischia di andare a puttane. Qualcuno rema pro domo sua e cerca di intascarsi il malloppo fregando gli altri. Man mano scopriamo parecchi segreti fino a quel momento celati, doppie e triple verità. Incominciano all’interno del gruppo i sospetti reciproci, le paranoie. Incomincia il gioco al massacro tra gli ex complici. Un film che solo la lingua napoletana può far sembrare qua e là una commedia vernacolare, e che è in realtà un livido quadro di vite perdute, di esseri ridotti alla loro animalità che non sanno fare altro che sbranarsi. Un quadro sordido, il ritratto di un’abiezione, di più abiezioni. Con quella mancanza di pietà, con quella cancellazione di ogni traccia umana che è della criminalità più o meno organizzata, più o meno disorganizzata di questi tempi foschi. “Che ce ne facciamo della creatura?”, si chiede uno della banda del buco accennando al ragazzino che porta le pizze e che ha visto troppo, che sa troppo e potrebbe parlare: “lo sciogliamo nell’acido”, è la risposta del più animale di tutti. Ecco, siamo all’inferno, e Lombardi ce lo sa restituire con implacabile precisione, anche antropologica. Purtroppo la seconda parte, quella del post-rapina, rischia di rovinare il buono della prima, piena com’è di salti logici e incongruenze. La sparatoria nella tana del boss che ha convocato due della banda (che poi incredibilmente si salveranno) non sta né in cielo né in terra nel come si svolge e nel come si conclude. L’improvvisa quanto improbabile omosessualità di uno della band che di colpo si mette a fare un pompino serve solo, chiarissimamente, a giustificare lo sparo che ci sarà di lì a poco, e allora no, non si fa. Quei tre che alla fine si sparano a vicenda, con la macchina da presa vorticante genere triello di Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone, grida vendetta al dio della logica e del buonsenso. Certo, anche in queste incongruenze Lombardi sa mantenere il film in una luce livida, spettrale, in un clima di allarme e minaccia. Stile alto, e assai consapevole e definito, che però da solo non basta a far di questo film un grande film. Peccato. Take Five è uscito nei cinema (in qualche cinema) a un anno esatto dalla sua presentazione al Roma Festibal del 2013. Inutile però prendersela con la distribuzione, la quale fa quel che può in tempi in cui le sale chiudono e la gente compra sempre meno biglietti. Please, non tiriamo nemmeno in ballo la solita censura del mercato, che non esiste, non è mai esistita, se non nelle paranoie di chi ci crede. Semplicemente i film di nicchia, non mainstream, chiameteli come volete, fanno fatica a uscire perché sempre meno gente li va a vedere, e distribuirli è diventato ormai un azzardo economico troppo grande. Mi piacerebbe tanto sbagliarmi, ma proprio non riesco a immaginare un ventenne, un trentenne che spenda dei soldi per vedersi certi film diciamo così differenti. Tutt’al più aspettano di scaricarli gratis o di pirateggiarli in streaming. Tutt’al più.

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