I due volti di gennaio (The Two Faces of January), un film di Hossein Amini. Tratto da un romanzo di Patricia Highsmith. Con Viggo Mortensen, Oscar Isaac, Kirsten Dunst.
Atene, 1962, Una coppia di ricchi americani in vacanza incontra un expat, pure lui americano, insabbiatosi in Grecia per oscuri motivi. È subito amicizia e strana alleanza tra i tre. Ci sarà un omicidio, e sarà l’inizio di un gioco di maschere e inganni. Un thriller cerebrale mica per niente tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, dove la suspense è tutta nelle relazioni ambigue e oscure tra i personaggi. Grande prova di Viggo Mortensen. Film rigoroso, assai buono. Coraggioso e controcorrente rispetto ai medi gusti di oggi. Senza però quella visione forte di cinema che avrebbe potuto trasformarlo in qualcosa di importante. Voto 7
Onore a Hossein Amini, qui alla sua prima prestazione da regista dopo un’onorata carriera come sceneggiatore (suo, per dire, lo script di Drive di Nicolas Winding Refn). Perché, signori, oggi ci vuole fegato, anzi ci vogliono proprio le palle, diciamolo, a mettere in cantiere un film così. Ambiguo e sfuggente, dove bene e male non sono nettamente staccati e decifrabili e anzi con in mezzo una zona grigia che, man mano che il racconto avanza, si allarga sempre più fino a ingoiare tutto, la storia e i personaggi. D’altra parte questo I due volti di gennaio da Patricia Highsmit viene, da un suo romanzo del 1964. Patricia Highsmith, la signora del mystery più cerebrale e impassibile, dove gli eroi son spesso cinici e criminali, e dove le vittime non sono mai così innocenti. Ripley, dice qualcosa? Il Ripley visto e stravisto anche al cinema in film come Delitto in pieno sole di René Clément (con un Alain Delon magnifico e a tutt’oggi inarrivabile) e L’amico americano di Wim Wenders. Ecco, di ambiguità, di ombre e penombre, di chiariscuri dove lo scuro è più intenso del chiaro, si nutre anche I due volti di gennaio, e vi pare una cosa così adatta al pubblico di oggi? Chi volete che, sotto i 40 anni (o sotto i 50?), lo vada a vedere un film così che è il trionfo del sottotesto, del non detto, dell’allusione, dell’obliquità e della sghembitudine? Di questi tempi dominati dai film-videogame? Qualcuno per sbaglio ci andrà attirato dalla presenza di Viggo Mortensen, l’Aragorn del Signore degli anelli, per poi scappare subito non appena avrà capito che qui non è aria da fantasy. Film volutamente inattuale, perfino masochista nel suo chiamarsi fuori dalla corrente e dal gusto corrente, e allora come si fa a non volergli bene almeno un po’, nonostante qualche evidente e vistoso limite, che va però a collocarsi accanto a numerosi segni più. Io, che adoro le storie così, che adoro la Highsmith, son corso a vederlo a Milano (no, non in proiezione stampa, ma in un sala qualsiasi con il pubblico – peraltro non numerosissimo, e non propriamente giovane) dopo averlo perso nel febbraio scorso alla Berlinale, dov’era stato presentato fuori concorso. Non m’è venuto di urlare al capolavoro, e però I due volti di gennaio è film che merita rispetto. Hossein Amini ce la fa a restituite, almeno in parte, le volute e gli arabeschi e l’andamento spiraliforme dello storytelling di Patricia Highsmith, il suo immergersi e immergerci progressivamente nei labirinti psichici dei personaggi, sempre oscillanti tra colpa e innocenza, tra trasparenza e opacità. Tant’è che non appena cediamo alla simpatia per uno di loro veniamo subito delusi con la rivelazione di una loro macchia. Messinscena, inganno, doppio gioco, mascheramento, finzione. I tre protagonisti del film entrano ed escono dai loro personaggi come in una recita teatrale, e alla fine non sappiamo più chi siano davvero. Siamo nel 1962. Siamo ad Atene. Siamo al Partenone. Un giovane uomo – una guida turistica – fissa una coppia di ricchi americani in vacanza. Non è chiaro da che cosa sia attratto, forse dalla bellezza di lei, forse dalla prospettiva di cavarci dei vantaggi, forse da qualcos’altro che Highsmith (e Amini) ci fa balenare senza esplicitarlo. Rydal, questo il nome del giovane uomo (attenzione, è l’Oscar Isaac di A proposito di Davis dei Coen) li aggancerà, li trufferà approfittando della loro scarsa conoscenza della moneta locale, riuscirà a conquistarli. Tant’è che Chester MacFarland (Viggo Mortensen) e la sua più giovane moglie Colette (Kirsten Dunst), finiranno con l’invitarlo a cena. Ma chi sta manipolando chi? Emergono brandelli delle loro vite. MacFarland è un finanziere newyorkese che vuol far conoscere la vecchia Europa alla (seconda) moglie, Rydal è un expat, anche lui americano, insabbiatosi lì in Grecia per oscuri motivi, scappato da un padre (morto da poco) con cui era edipicamente in aspro conflitto. Vive di espedienti, di piccole truffe, acompagnandosi anche a ricche signore e signorine. Il triangolo è stabilito, in un’alleanza instabile che rischierà più volte nel corso della storia di saltare, per poi ricomporsi. Un incontro fatale, per i MacFarland come per Rydal, che cambierà le loro vite inoculandoci il virus della distruzione. Ci sarà un omicidio (involontario?) nella camera del lussuoso hotel in cui Chester e Colette alloggiano, omicidio che ci farà scoprire l’altra faccia di lui, quella che sta dietro la maschera del finanziere di successo. Per via di quel morto devono scappare, i MacFarland, e un po’ per caso un po’ per propria volontà Rydal resterà coinvolto nella loro fuga. Sarà lui a procurare i documenti falsi di cui i due hanno bisogno, lui a trovar loro un rifugio a Creta. Perché lo faccia resta highsmithianamente indecifrabile, sospeso, non detto. Per amore di Colette? O per un’attrazione non confessata per Chester? O per una sorte di soggezione edipica verso quell’uomo così imperioso? Un triangolo che trasuda anche omoerotismo tra i due maschi, dentro il quale Colette sembra fungere classicamente da donna dello schermo, da puro riverbero, da alibi e pretesto e mezzo e mascheramento perché si scateni la corrente del desiderio tra Rydal e Chester. Ci saranno parecchi colpi di scena e rovesciamenti, ci saranno altre vittime, ci sarà un finale mirabile e perfino straziante per come, ancora una volta, i caratteri si ribaltanto e cambiano colore e riescono a sorprenderci. L’inganno e la crudeltà mentale sembrano le cifre psichiche di questo gioco a tre. Condotto in un Mediterraneo ancora una volta, come in tanta letteratura (e cinema) anglosassone e nordeuropea, sfondo meraviglioso e pericoloso, luogo dell’istinto e del selvaggio dove una forza tellurica devasta ogni forma di controllo e di autocontrollo. Luogo dell’eros, e pure di thanatos. E non si può non pensare a classici del cinema come Improvvisamente l’estate scorsa e La primavera romana della signora Stone. Non si può non pensare a Lawrence Durrell. Hossein Amini rispetta trama e caratteri del racconto originario, impagina con fedeltà e perfino devozione, e realizza un prodotto elegante e lavish, con però il grandissimo merito di non cadere in quel formalismo e in quell’estetizzazione esteriore da interior decorator che ammorbano tanti period movies. Riesce perfino a evitare la tentazione del vedutismo turistico, pur muovendosi tra Atene, Creta e, nell’ultima parte, Istanbul. Molti altri registi sarebbero andati senza troppe remore sull’effetto dépliant-agenzia di viaggio più o meno virtuali, Amini invece fotografa sobriamente e mai pornograficamente le sue necessarie e ineludibili rovine, dall’Acropoli ateniese a Cnosso, e non eccede nemmeno in esotismo facile quando si tratta di girare nel gran bazar di Istanbul. Un’altra spia di come questo film si astenga dal piacionismo, dalla ruffianaggine e tenda alla pulizia, al rigore, perfino all’astrazione. Manca però una visione di cinema originale, manca un’impronta personale decisa, quella che avrebbe trasformato I due volti di gennaio da buon film in grande film. Eccellenti le performance dei tre attori, e a dominare è Viggo Mortensen, forse l’unico oggi in circolazione in grado di restituire le doppiezze e le cavernosità psicologiche e le tortuosità di Chester. Regge bene il confronto Oscar Isaac, Kirsten Dunst è impeccabile, anche se il suo ruolo è il meno incisivo. Si resta solo parzialmente soddisfatti, e con la sensazione che si sarebbe potuto e dovuto fare di più con quel materiale, con quel romanzo di Patricia Highsmith, con quella storia. Ma forse non son più tempi per simili film, forse era impossibile fare di meglio. I due volti di gennaio è per sua natura, strutturalmente, intimamente distonico rispetto all’oggi. Un oggetto irrimediabilente retrodatato, un ufo che le ultime e penultime generazioni probabilmente non riusciranno nemmeno a decodificare.
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