C’era una volta il West, Rete 4, ore 21,15.
Uno di quei film smisurati, monumentali. Bigger than life. Tanta roba, per dirla in lingua giovanottesca. Eccessivi per le ambizioni che ci stan dietro, per come portano al limite di rottura, anzi di esplosione, le convenzioni di un genere, i suoi luoghi narrativi consolidati. Genere che qui, naturalmente, è il western, quello italiano e quello originale americano. Sergio Leone – siamo nel 1968 – ha ormai alle spalle la trilogia del dollaro che ne ha fatto l’autore che sappiamo, universalmente conosciuto e riconosciuto, un maestro, e non si esagera. Riprende sì la forma del film di frontiera, ma la dilata, la gonfia fino a deformarla, a renderla altro da sé (e chissà perché questo film consapevolmente rivouzionario e distruttivo dei modelli preesistenti vien spacciato come un omaggio al cinema classico, con cui invece intraprende un furioso corpo a corpo). Operazione che Leone conduce soprattutto rallentando i tempi del racconto e della messinscena, come certo aveva già fatto, ma qui esagerando fino all’azzardo, e sconcertando lo spettatore. Si pensi alla sequenza d’apertura, da storia del cinema, con il pistolero – Woody Strode – che ai bordi della ferrovia aspetta beckettianamente. Quei primi piani con i dettagli della mosca. Quei gesti che tendono all’immobilità, che si spengono e si dissolvono in una progressiva paralisi del corpo, e dell’immagine. L’immensità dello spazio che lo ingoia, e subito dopo il particolare sparato a tutto schermo. L’effetto è quello di un film titanico, magniloquente, gonfio, dove l’azione si fa man mano inazione, vita che si spegne in una fissità mortuaria (si pensi anche alla sequenza finale del flashback di Armonica, girata in ralenti). Film che mi ha sempre sgomentato, soggiogato, sedotto e insieme allarmato. Che mi ha sempre comunicato un senso di soffocamento, come di un cinema posseduto dall’entropia che ripieghi su se stesso fino a esaurirsi. La storia: una carogna che sta costruendo laggiù nel West una ferrovia incarica il più feroce dei killer di far fuori una famiglia proprietaria di un pezzo di terra strategico. Così succederà. Ma il barone dei binari (un viscido Gabriele Ferzetti, il villain perfetto) dovrà vedersela con la vedova, che ha ereditato il terreno e non ha nessuna intenzione di cederlo. A darle una mano intervengono un pistolero (Jason Robards) e il misterioso Armonica, il solito straniero senza nome à la Sergio Leone, solo che qui non c’è più Clint Eastwood ma Charles Bronson. Uno che ce l’ha con il killer e alla fine scopriremo il perché. L’avidità, la corsa alla ricchezza che si metaforizza dell’avanzare della ferrovia nelle plaghe desertiche. Il tradimento, la vendetta. Tutto il western che abbiamo conosciuto frullato e servito in una cornice formale straordinariamente innovativa. Leone, prendendo qualcosa dal suo riconosciuto maestro Kurosawa, mette in scena una liturgia della violenza, un cerimoniale di vita e di morte, e più la seconda della prima, dove gli umani sono figure di una sacra rappresentazione. Regola i conti con i propri fantasmi cinematografici e cinefili, in un faccia a faccia, in un confronto/scontro edipico – non meno deciso e letale dei duelli dei suoi film -, con i padri del western americano, John Ford in primis. Prende un attore-totem di quel cinema e quella stagione, Henry Fonda, e gli affida il ruolo della carogna, sfregiandone l’immagine angelicata costruita in una carriera. Immerge l’azione (o meglio l’azione non-azione) nei panorami della Monument Valley, tanto per esplicitare la sfida. Vince, altroché. Anche se il publico americano rimase perplesso, e a sfondare davvero su quel mercato fu, più che il film, la meravigliosa e adesso storica colonna sonora di Ennio Morricone. Claudia Cardinale, di una bellezza assoluta, riesce nella incredibile impresa di diventare l’unico, vero personaggio femminile dei film di Leone, il solo che possa stare al livello dei suoi pistoleros e bounty-killers e il solo che si sia impresso davvero nella nostra memoria. Soggetto cui contribuirono Bernardo Bertolucci e Dario Argento. Incontrarono Leone all’uscita di un cinema romano, fu subito complicità, lui li richiamò, li invitò a farsi venire delle idee per un film, ed ecco il risultato.
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