Recensione: PICCOLE CREPE, GROSSI GUAI. Nonostanto il titolo balordo, è un gran bel film. Non perdetevelo

20508795Piccole crepe, grossi guai (Dans la cour), un film di Pierre Salvadori. Con Catherine Deneuve, Gustave de Kervern, Fédor Atkine. Francia.
322727La strana amicizia tra un portinaio ex musicista e una signora del palazzo in cui presta servizio. Sembra la solita commedia francese per sciure, invece no, è molto meglio. È la storia di un’alleanza tra due fallati, due vite lese, due sofferenze. Un film che parte leggero e poi si incupisce e si complessifica. Gran prova attoriale di Gustave de Kervern (sì, uno dei due registi di Louise-Michel e Mammuth) e di Madame Deneuve. Voto 7 e mezzo
471814 2Ma santo cielo, perché un film che nell’originale francese si chiama semplicissimamente, efficacemente, pertinentemente Dans la cour, ovverossia Nel cortile, diventa in italiano quella roba lì? Che non te la ricordi neanche se ti applichi agli how-to-do online sul potenziamento della memoria. Non si capisce tanto masochismo da parte di chi manda in sala un film già di suo non da pubblico-popcorn, e che se mai avrebbe bisogno di un qualche aiutino di marketing, mica di un autosabotaggio così. Ma passiamo oltre. Film bello, e molto, molto meglio di quanto sulla carta promettesse. Che vi consiglio di agguantare, sempre che i cinema dalle vostre parti non l’abbiano già dismesso (nella classifica del boxoffice dell’ultimo weekend non compare neanche tra i primi venti, il che vuol dire che ha rimediato una miseria e che in qualche sala avranno già dato spazio ad altra roba). Alla scorsa Berlinale lo davano fuori concorso, ma, avendo perso i primissimi press screenings in area Potsdamerplatz, mi sarei dovuto scapicollare in parti estreme della città per riagguantarlo, e francamente non mi pareva ne valesse la pena. Mi aspettavo, dalla solita sinossi anodina da festival (anche se quelle della Berlinale sono fra tutti i festival le migliori e più complete) in cui si parlava di strana amicizia tra un portinaio e una condomina borghese del palazzo (inteso come stabile), un film per sciure da domenica pomeriggio. Di quelli che un tempo a Milano si davano al President, blandissimamente autoriali e impeccabilmente recitati e messi in scena con gran gusto e con tutte le chicchere, le tappezzerie e le tende come han da essere per piacere alle sciure. Macché, Dans la cour è tutta un’altra cosa, e per fortuna. Un film nella sua partenza sorridente, abbastanza mainstream e quel che si suol dire carino, ma che poi devia, si intorbida, va da tutt’altre parte, porta a galla follie, ossessioni, derive esistenziali, vite derelitte, con un finale che non concilia e lascia turbati. L’avrei dovuto intuire, mannaggia, dall’attore che incarna il main character, il personaggio di un ex musicista – bassista, se ricordo bene – che, caduto in depressione, molla tutto, carriera e pure fidanzata, per lasciarsi andare. Verso dove, manco lui lo sa. Finché non trova, un po’ per caso e molto per necessità, un posto come portiere in uno stabile parigino medioborghese. Bene, l’attore è Gustave de Kervern. Dice qualcosa? Sì, proprio lui, l’esatta metà della premiata coppia registica Kervern-Delépine che ci ha dato nell’ultima decade film eccentrici e giustamente malsani e vagamente punk, certo mai medi e carucci, come Louise-Michel, Mammuth, Le Grand Soir. Fino a quel notevolissimo Near Death Experience, passato all’ultimo Venezia Festival purtroppo nell’indifferenza del pubblico e quel che è peggio della critica conclamata, dove si traccia la parabola autodistruttiva, più nichilista che tardoesistenzialista-camusiana, di un ominio qualunque e insieme speciale interpretato nientedimeno che dal migliore e meno allineato degli scrittori francesi, Michel Houellebecq. Ecco, da Gustave de Kevern, benché solo in veste d’attore, non ci si poteva aspettare un’interpretazione qualunque in un film qualunque. Difatti, Dans la cour qualunque non è. De Kervern già di suo con quel suo corpo irsuto da orso, quella faccia come attonita, quei capelli come arruffati da una scossa – un insieme somatico che è il negativo e il rimosso del dilagante e dominante corpo glamourizzato d’oggidì – ci porta altrove, in zone più inquietanti. Il regista Pierre Salvadori lo fa interfacciare e interagire e cortocircitare con quel perfetto altro-da-lui che è Catherine Deneuve, già totem della bellezza femminile al suo grado più alto, e qui, a settant’anni, sempre signora piacente, imperiosa e fascinosa. Nonostante una stazza matronale. Nonostante la sigaretta sempre tra le labbra o tra le dita (notatelo: Deneuve fuma sempre moltissimo nei suoi film). Nonostante gli evidenti ritocchi in faccia, ma tanto che importa?, Madame si può permettere tutto. Che comunque una sua occhiata di sghimbescio ancora oggi vale più di cento tettine rifatte di ragazze e ragazzacce in vogliosa carriera che solcano i nostri schermi. Bene, la coppia si combina a meraviglia ed è alla fin fine la vera carta vincente del film. Allora: Antoine, musicista in crisi, dopo la crisi di cui sopra e dopo aver fatto la questura all’ufficio di collocamento, vien sistemato quale portiere nello stabile in cui abita Mathilde (Deneuve). Di esperienza non ne ha, il suo aspetto da orso punk spaventa qualche condomino, ma sarà proprio grazie al sì di Mathilde, cui è piaciuto subito al primo incontro, che viene assunto. Lei è una signora in preda a crisi che sembrano bovaristiche, ma che si rivelano man mano più gravi. Con un marito, ex del partito comunista e del sindacato, brav’uomo che però fatica a capire le turbe della moglie. La quale adesso si è fissata su una crepa che si è aperta su una parete del soggiorno di casa, e non ci dorme più la notte, e si è convinta che quella crepa sia il segno inequivocabile dell’imminente crollo del palazzo. Nonostante il parere rassicurante di un tecnico del comune, Mathilde non riesce a liberarsi dalla sua ossessione, che anzi si aggrava di giorno in giorno fino a bordeggiare la follia (convocherà perfino un’assemblea di condominio e di quartiere per lanciare l’allarme sui possibili e per lei probabili crolli). Il marito prima abbozza, poi comincia a guatarla malissimo e a prenderla per matta (“Da stalinista qual è pensa che chi non è d’accordo con lui debba essere mandato in manicomio!”, dice lei, ed è la battuta migliore del film), l’unico conforto, uno straccio di comprensione Mathilde la trova proprio nel portiere Antoine, devastato e destabilizzato come e più di lei. Uno che si strafà di coca di nascosto, accoglie cani e pazzi clandestini nel palazzo rischiando il posto, e via camminando sulla wild side e sulla borderline, e anche un bel po’ in là. Dans la cour, che si era aperto come una commedia francese di caratteri come tante, brillante e un po’ manierata, si incupisce via via seguendo i suoi due protagonisti nella discesa verso i loro abissi personali, nei loro corpo a corpo con i propri fantasmi. Due vite diversamente derelitte che si puntellano e cercano di sopravvivere al marasma, ma che rischiano anche di tirarsi a fondo. De Kervern – straordinario – non cede mai, neppure per un secondo, alla ruffianaggine, alla tentazione di catturare la benevolenza della platea. Mantiene la sofferenza del suo personaggio come secretata, nascondendola dietro la sua maschera punk e sporca, senza mai usarla in modo ricattatorio nei confronti dello spettatore. Grandissima prova, anche, se mi è consentita la parola, etica. Un esempio di recitazione che non alliscia il pelo a chi guarda, mai. Succederanno parecchie cose, dico solo che sia Antoine sia Mathilde dal loro interagire usciranno trasformati. Ci sarà qualcuno che pagherà e qualcuno che rinascerà. Ma di più non sta bene rivelare. Dico solo: non perdetevelo.

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