Recensione: THE JUDGE. Un frusto melodrammone di famiglia (e che delusione Robert Downey Jr.)

JUDGE, THEThe Judge, un film di David Dobkin. Sceneggiatura di Nick Schenk, David Seidler, Bill Dubuque. Con Robert Downey Jr., Robert Duvall, Leighton Meester, Billy Bob Thornton, Vera Farmiga, Vincent D’Onofrio, Melissa Leo.
JUDGE, THEMa perché il molto cool Robert Downey Jr. va a interpretare un film così sdato? Conflitto edipico dei più classici, tra padre giudice e figlio avvocato dei peggio criminali. Finché le circostanze li costringeranno ad allearsi. Interno e inferno di famiglia da Hollywood anni Cinquanta, solo che allora c’erano i Tennesseee Williams e gli Elia Kazan, e adesso no. Voto 4 e mezzo
JUDGE, THEE noi che lo facevamo così cool, così moderno, il Robert Downey Jr., con quell’aria fichissima da maudit redento e ripulito che però ti dà l’impressione di poterci ricascare, che poi è il suo bello. Invece eccolo presentarsi con un film antico, anzi antiquato, un’anticaglia da Hollywood anni Cinquanta, uno di quei (melo)drammoni – l’accrescitivo è necessario a sottolinearne l’eccesso, l’opulenza, il gonfiore e il turgore – di famiglia con amori e rancori, e naturalmente più i secondi dei primi. Tutto un rinfaccio tra padre e figlio, tra figlio e padre, tra mamma e figlie, tra fratelli, tra sorelle, tra cognati, tra consuoceri. E tu mamma non mi hai amato e hai sempre preferito quell’altra là, e tu babbo perché sei sempre stato così duro con me? L’anno scorso avevamo visto I segreti di Osage County, con la matriarca Meryl Streep alla resa dei conti con rampolle, nipoti, generi e quant’altro. Ecco, questo The Judge gli somiglia parecchio, però in versione maschile, con al centro lo scontro di tutti gli scontri, la matrix di ogni odio e invidia di famiglia, insomma la sfida edipica tra padre e figlio, con il primo maschio alfa che non vuole mollare le posizioni di capo e il secondo maschio alfa che si dà da fare per rottamarlo. Cose che molti decenni fa producevano film come La valle dell’Eden, A casa dopo l’uragano, La gatta sul tetto che scotta. Con registi come Vincente Minnelli e Elia Kazan, e la scrittura di drammaturghi come Tennesseee Williams, gente che conosceva il male e te lo sapeva comunicare in climi adeguatamente torbidi e peccaminosi. Adesso che il senso del peccato se n’è andato via e non torna più non ci resta che l’inferno di famiglia per così dire laicizzato e ridotto a pura partita psicologistica. Come in The Judge.
L’eruzione degli odi latenti di solito si ha (al cinema, a teatro, ma mica solo lì, anche nella vita fuori scena) in occasione di matrimoni, funerali o altre riunioni del clan parentale. Difatti, anche qui ri-comincia tutto con le esequie di mamma. Per le quali il figliol prodigo Hank non può non tornare al paesello dell’Indiana da cui se n’è scappato molti anni prima per cercare fortuna e starsene lontano da un genitore troppo ingombrante e incombente. Adesso è avvocato di gran successo a Chicago, di quelli di molto cinismo e zero scrupoli che si arricchiscono difendendo i peggio criminali, lavoro sporco nel quale lui è il più bravo di tutti. Torna dunque a casa per il funerale, e se la deve vedere oltre che con il cadavere di mamma con i due fratelli lì rimasti e mai partiti, uno che fa il gommista l’altro un disabile psichico con la mania di riprendere tutto con la sua cinepresa. Ma, soprattutto, si ritrova a tu per tu con il genitore con cui son stati in passato sanguinosi conflitti, genitore di nome Joseph che è un giudice integerrimo, un’istituzione lì in provincia, e non può che detestare quel figliolo passato dall’altra parte della giustizia a difendere le carogne. Il figlio avvocato è ovviamente Robert Downey Jr., giusto nella parte con la sua faccia di tolla da impunito, il babbo è Robert Duvall in un ruolo di patriarca bisbetico che è un invito al trombonismo, e Duvall (come Downey del resto) ci dà dentro di brutto senza risparmiarsi e risparmiarci nulla. La (relativa) novità di The Judge è che il melodramma parentale si ibrida stavolta con il courtroom movie, anche se passaggi e snodi narrativi restano assai prevedibili e telefonati essendo inesorabilmente modellati su archetipi che abbiamo visto mille volte. Succede che il babbo, alcolista di nascosto nonostante proclami di essersi ripulito dal vizio da tempo, tornando in macchina dal supermercato va a spianare un ciclista. Che ci resta secco. Un ciclista? Sì, ma non proprio qualunque. Perché è un tizio appena uscito di galera dopo diciannove anni scontati per omicidio, un omicidio turpe e cruentissimo per il quale a suo tempo fu proprio il giudice Joseph a condannarlo. Chiaro che subito si sospetta che l’abbia investito intenzionalmente, per comminargli quella condanna definitiva che si meritava e porre rimedio all’ingiusta rimessa in libertà. Il giudice-babbo viene arrestato, e le prospettive per lui all’imminente processo non sono delle migliori. E chi va a difenderlo? Il figliolo da lui ritenuto degenere, l’unico però a credere che sia innocente e l’unico in grado, con il suo mestiere, di tirarlo fuori dai guai. Quel che segue scorre su binari rigidamente prefissati secondo i codici del genere, con l’aggravante di tirarla inutilmente per le lunghissime: 141 minuti, che fanno due ore e 21 minuti. Almeno tre quarti d’ora di troppo. Si boccheggia e si rischia il soffocamento da sbadiglio di fronte agli ‘Scusate Vostro onore’, agli ‘Obiezione, signor giudice!’, agli ‘Obiezione respinta!’, tale e quale i mitologici Perry Mason. Con tutto il rimosso di famiglia che man mano viene a galla dietro le quinte del processo e anche durante, lì davanti a tutti. Per carità, sceneggiatura molto professionale, con colpi e colpucci di scena dosati come Dio comanda. Ma siamo in un cinema dai modi desueti e consunti, senza che nessuno – regista, autori, attori – tenti di rinfrescarli. Con, oltrettutto, un eccesso di sottotrame (la crisi con la moglie, la figlioletta, l’ex amore, la figlia presunta ecc. ecc.) che non fanno altro che appesantire e complicare inutilmente il già turgido asse narrativo principale. La delusione è Robert Downey Jr., bravo sì ma convenzionale, e da lui tutto ci saremmo aspettati ma non questa interpretazione da film per famiglie. Vera Farmiga è quasi irriconoscibile come bionda bomba del sesso di provincia (è il primo amore di Hank). Meraviglioso Billy Bob Thornton quale pubblico ministero, il vero vincitore del film.

Questa voce è stata pubblicata in al cinema, cinema, Container, film, recensioni e contrassegnata con , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.