Kundun di Martin Scorsese, Iris, ore 0,41.
Uno dei film più anomali, e anche dei meno amati e di successo, di Martin Scorsese. Il quale abbandona qui – siamo nel 1997 – le sue Little Italy e le sue main streets per addentrarsi in territori culturali e geografici alieni e parecchio lontani, quelli del buddismo tibetano, come aveva già fatto Bernardo Bertolucci nel decorativo Piccolo Buddka. Kundun è nientedimeno che il biopic del Dalai Lama numero quattordici, la guida spirituale dei tibetano rimasti in patria come di quelli della diaspora, insomma l’uomo che tutti conosciamo come icona mediatica tra le più incisive degli ultimi decenni, omaggiato con tanto di di Nobel per la pace. Scorsese mette in cinema la sua autobiografia, raccontandola con una devozione e una fedeltà che finiscono con lo frenare il film trasformandolo in un santino per quanto lussuosissimo e magnificammete girato. Storia di Tenzin Gyatso, questo il nome originario del Dalai Lama, dai suoi primi anni a quando viene scelto ancora bambino per la massima carica civile e religiosa da un monaco che l’ha avvistato in un villaggio remoto. Seguono la lunga preparazione e educazione al ruolo, le lotte di palazzo (ebbene sì, anche tra i buddisti), i complicati rapporti con il vicino cinese che finirà con l’inghiottire il Tibet. E per il Dalai Lama quattordicesimo sarà l’esilio. Sarebbe potuto diventare un poderoso affresco storico e anche antropologico, è invece un bellissimo film malato di esotismo, che si approccia estaticamente a un mondo altro con un rispetto che sconfina nel politicamente correttissimo. Ma è Scorsese, gli si perdona tutto, perché come fa cinema lui, come muove la macchina da presa lui, non c’è nessuno. Kundun è stato girato in esterni in Marocco.
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