Un gran bel film stasera sulla tv in chiaro: L’ARTE DI VINCERE (MONEYBALL) – ven. 7 nov. 2014

L’arte di vincere, Rai 3, ore 21,05.

Sembra il solito film molto american-dream sulla squadra sportiva sfigata che poi si riscatta e vince. Gli ultimi saranno i primi. Potete tutti farcela se volete. Ma il film cambia sotto i nostri occhi e si fa via via più sottile, diventa l’elogio del pensiero differente, del guardare al mondo secondo nuovi paradigmi. Un film di muscoli e sudore che è in realtà un film di idee. Bella e mai piaciona interpretazione di Brad Pitt (anche produttore), giustamente nominato all’Oscar. Voto: 7
DF-09179rL’arte di vincere (Moneyball)
, regia di Bennett Miller. Sceneggiatura di Steven Zaillan e Aaron Sorkin. Con Brad Pitt, Jonah Hill, Philip Seymour Hoffman, Robin Wright.

Di Bennett Miller s’è visto a Cannes lo scorso maggio il notevolissimo Foxcatcher, oggi uno dei più accreditati concorrenti alla imminente Awards’ Season (e speriamo arrivi al più presto nei nostri cinema). Eppure quando uscì in Italia questo suo precedente L’arte di vincere (Moneyball) fu liquidato con sufficienza da certa nostra critica, incapace di cogliere le sottigliezze e anche le novità di un film solo apparentemente di genere, in realtà sul pensiero differente e laterale, sulla capacità di leggere dove altri non vedono e percepiscono. Certo, al suo primo livello la storia sembra già vista mille volte nel cinema born in Usa, quella di uno sfigato team sportivo – in questo caso una squadra di baseball – che dagli inferi sale inaspettatamente ai vertici grazie a un quid (dedizione, genialità, impegno disumano, altro) che fa da propellente e detonatore al miracolo. Gli ultimi saranno i primi, letteralmente. Il sogno americano spiegato alle masse, anche del resto del mondo, attraverso una esemplare parabola sportiva. Tutti potete farcela, basta che lo vogliate. Sì, sembra tutto déjà-vu e anche fintissimo, invece è successo tutto davvero, e L’arte di vincere ne è il resoconto abbastanza fedele. Dunque, Billy Bean (Pitt) è il manager di una squadra di baseball californiana, gli Oakland A’s (sta per Athletics), che – siamo nell’anno 2002 – giace al fondo della classifica del campionato nazionale. Non ci sono soldi, presidente e manager sono costretti a vendere i migliori e comprarsi gli scarti rimasti sul mercato.
Un infernale circolo vizioso che li sprofonda sempre più giù. Pare non ci sia speranza, che non si possa fare altro che rassegnarsi a guardare gli altri dal di sotto in su. Ma Billy Bean è uno che qualche conto aperto con l’ha vita ce l’ha, e non ci sta a darsi per sconfitto. Già ha fallito come giocatore – era una promessa, tutti lo davano come futuro campione e invece tonfo – ora, benchè a capo di una squadra sfigata, vuole il riscatto. Un giorno per caso incontra un ragazzotto obeso con l’aria ultranerd benché incravattato e incamiciato (Jonah Hill, anche lui in nomination Oscar come best supporting actor) che, laureato a Yale in economia, ha messo a punto un sistema di calcolo per valutare le prestazioni dei vari giocatori e un modello per il loro utilizzo ottimale. Tabelle, percentuali, dati incrociati, statistiche sui colpi messi a segno e la velocità. Il baseball radiografato e ridotto a modello matematico di rarefatta, intangibile, disincarnata bellezza e perfezione. Non ci crede nessuno alla sua efficacia, però Billy sì, ci crede, e decide di ingaggiare quel geniaccio e di portarselo a Oakland. Applicare il Moneyball, così si chiama la nuova dottrina digitale, non sarà facile, perché vuol dire sovvertire gli schemi mentali e tecnici consolidati, distruggere la convenzione, andare contro tutti, contro il team di consulenti e soprattutto contro l’allenatore (il povero, al solito bravissimo, Philip Seymour Hoffman, che ha accettato questo ruolo collaterale probabilmente per amicizia nei confronti di Bennett Miller, il regista che l’aveva diretto in Capote portandolo all’Oscar). Agire secondo la logica di Moneyball vuol dire rifare tutto, andarsi a comprare con i pochi soldi che ci sono i giocatori che nessuno vuole più, quelli che si sono rotti e mai più riaggiustati bene, quelli sul viale del tramonto e anche oltre, quelli che bevono e vanno troppo a donne. Però il ragazzo venuto da Yale li ha tutti analizzati e ha trovato in loro una qualità speciale che gli altri non hanno notato o hanno sottovalutato. Allora, li si compra a niente, li si utilizza solo per quello che sannno fare molto bene e non per quello che non sanno fare, e il dream team può prendere vita. Mica facile però passare dal modello digitale alla pratica, e alla vita. Billy deve ricorrere a ogni mezzo per farla trangugiare all’allenatore, il quale si ostina a mettere in campo chi vuole lui. Infine la nuova squadra è varata, e potete immaginare come va, giusto? Gli inizi sono disastrosi, ma poi c’è il decollo, e gli Oakland A’s azzeccanno una striscia di vittorie che li porta nella storia. Noi intanto, che di baseball capiamo niente e non sappiamo a cosa servano le basi e cosa siano gli innings e quelle palle che vanno in tribuna cosa mai saranno?, noi insomma fatichiamo un attimo a capire l’entusiasmo del popolo americano, soprattutto dei blue collars, per questo sport così inafferrabile, ma tant’è. Apprendiamo però di striscio parecchie cose su quel business, ad esempio che un giocatore mediamente pagato guadagna 8 milioni di dollari l’anno, molto, molto di più di celebrati campioni del nostro campionato di calcio, e noi che ci lamentiamo e scandalizziamo, cosa mai devono dire là? Che i giocatori possono essere venduti e spediti in un’altra squadra dal mattino alla sera, senza che sia necessario il loro consenso, cosa che qui con i nostri calciatori e il vigilante sindacato dei calciatori sarebbe impensabile (e la scena di Billy Beane che tratta al telefono con venditori e acquirenti di assi e scarti del baseball è una delle più belle del film, con tempi perfetti, frutto di un gran lavoro di dialogo e sceneggiatura in cui si sente forte e netta la mano del grande Aaron Sorkin). Ma a tirare fuori il film dalle secche del già visto e dal genere codificato del perdente-che-vince è il personaggio di Billy Beane, complesso anziché no, stratificato, non così simpatico, corroso dal senso di sconfitta e invasato dell’ansia di riscatto, cui Brad Pitt aderisce completamente, e lo fa senza cadere, lui, la star di tutte le star, nel minimo piacionismo. Il Billy di Brad è brusco, ombroso, nervoso, convenzionale solo nelle scene con la figlia che ci potevano anche essere risparmiate. Gran bella interpretazione, nomination a suo tempo all’Oscar meritata. Ma l’uomo vincente di questo L’arte di vincere credo sia Aaron Sorkin, che co-firma lo script insieme a Steven Zaillian e capace come nessuno di mettere a punto dialoghi scintillanti senza rinunciare alla profondità e all’intelligenza. È lui, immagino, a far virare il film dal genere perdente-che-vince verso qualcos’altro, verso il film di idee, tessendo senza quasi che ce ne accorgiamo un sottile ma robusto elogio del pensiero differente, degli uomini che hanno il coraggio di una visione altra e diversa. Per questo L’arte di vincere sembra un film sullo sport, ma non lo è.
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