Storm Children, Book 1 (Mga Anak ng Unos, Unang Aklat), un film-documentario di Lav Diaz. TFF DOC fuori concorso.
Lav Diaz, vincitore lo scoro agosto a Locarno del Pardo d’oro, ha realizzato questo documentario sui luoghi colpiti qualche mese da un tifone. Fiumi che trascinano di tutto, interi villaggi spazzati via dal mare, e adesso si cerca di sopravvivere nelle baraccopoli all’ombra delle navi spiaggiate dalla grande tempesta. Dappertutto bambini che scavano tra le macerie in cerca di qualcosa da vendere. Ma che in tutto quel marasma riesco anche a divertirsi. Forse il migliore film di Diaz. Sobrio, non retorico, e con immagini meravigliose. Voto 8 e mezzo
Lo scorso novembre uno dei tifoni peggiori che memoria d’uomo ricordi, Yolanda, ha devastato parte delle coste filippine del centro del paese, distruggendo, sommergendo, uccidendo. Il più conosciuto regista del paese, quel Lav Diaz venerato in tutti i festival europei ed americani per le sue opere smisurate e ipnotiche, premiato lo scorso agosto a Locarno con il Pardo d’oro per il fluviale (quasi sei ore) From What is Before, ha passato mesi nelle aree colpite dai tornado filmando e filmando, fino a accumulare una quantità enorme di materiale. Questo film, dedicato ai ‘bambini della tempesta’ che, secondi Diaz, son la parte debole destinata a pagare il prezzo più alto della catastrofe, viene presentato come un ‘Volume 1’, lasciando intendere che seguirà dell’altro. D’altra parte, rispetto alle dimensioni fuori misura cui Lav Diaz ci ha abituati, questo Storm Children con i suoi 143 minuti sembra un corto. Un battito di ciglia se rapportato all’opera omnia del premiato maestro filippino. Il quale, anche se stavolta si presenta in veste di documentarista col dichiarato intento di denunciare e sensibilizzare (immagino la classe politica e la pubblica opinione nazionale e pure internazionale) sul disastro, resta pienamente se stesso, con la sua inconfondibile visione di cinema, lo stile che ormai gli conosciamo e già codificato. Che vuol dire: uso del bianco e mero, un B/N molto contrastato e di forte resa visiva, inquadrature fisse con camera lasciata come a se stessa a riprendere fattualmente, oggettivamente, clinicamente ciò che succede nel campo visivo, sequenze lunghe dieci-quindici minuti e anche più, facendo in modo che lo spettatore si concentri sull’immagine schermica e possa progressivamente notare dettagli, minimi movimenti e variazioni che al primo sguardo non sono avvertibili. Cinema neanche così ostico e difficile. Lav Diaz, checché se ne dica, non è un autore sadico e punitivo, lui sa sempre allestire una narrazione, purché con tempi assai dilatati, e soprattutto sa cogliere ovunque la bellezza, anche (soprattutto?) nel degrado, e sa trasmettercela, e però senza retorica e senza glamourizzazioni equivoche, al contrario per dire di un Sebastião Salgado (confrontare questo con il bruttissimo film di Wenders su di lui Il sale della terra).
Temevo che in Storm Children si abbandonasse a un furore denunciatorio pro-infanzia abbandonata, infarcendo le sequenze di proclami, indignazioni, prediche, lezioni e il solito scialo di sentimeni umanitari. Niente di tutto questo, per fortuna. Diaz confeziona un film quasi muto (qualche parola trapela, detta da un paio di bambini, solo verso la fine) e lascia che siano le immagini a dire, a parlare. Perché sovraccaricare la comunicazione quando non ce n’è bisogno? Si otterrebbe solo rumore. In questo Lav Diaz è sì parente del rigore europeo di Dreyer o Bresson, ma lo è anche del sommo giapponese Ozu. I paesaggi devastati che ci mostra sono di una potenza rara e, pur nella loro miseria, meravigliosi. Si apre con un pioggia incessante su un lago o un mare nero e minaccioso. Si prosegue con corsi d’acqua stragonfi che portano a valle detriti di ogni tipo, e bambini sui ponti a cercar di afferrare un qualcosa che potrebbero rivendere, ferraglia, plastica, o a cercare i loro piccoli tesori in discariche formate dal fiume impazzito ai bordi, tant’è che una delle sequenze mirabili vede due ragazzini laceri che cercano di sollevare una lastra di metallo o d’altro material sepolta dal fango per scoprire cosa ci sia sotto. Un perfetto racconto di sospensione, e vi assicuro che si resta incollati allo schermo per un quarto d’ora curiosi, noi come quei bambini, di sapere cosa mai ne verrà fuori. Una scena che è una lezione di cinema. La macchina da presa si insinua in baraccopoli lungo il mare, fatte di tende, box di lamiera, teli di plastica a ricoprire cose miserande, e in giro, una folla sporca che si agita incessantemente, come in un formicaio. A dominare la vista, e quella comunità, navi che torreggiano, finite chissà come sulle terraferma, come enormi cetacei spiaggiati. Vuote, abbandonate, carcasse forse buttate lì dalla forza delle onde, e lì rimaste. La vita della favela si è come riorganizzata sotto le loro fiancate, mentre su quelle rimaste in acqua si arrampicano e poi si tuffano torme di bambini. Bambini che sembrano i padroni del territorio e trovano molti modi per divertirsi anche nella devstazione, quando non sono costretti a scavare con le mani, o con rudimentali attrezzi. Film a ciglio asciutto, che non piange e non vuole farci piangere, meravigliosamente girato, con inquadrature di sublime e commovente bellezza. E se fosse questo, insieme a El Norte, il migliore Lav Diaz?
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