I toni dell’amore (Love is strange), un film di Ira Sachs. Con John Lithgow, Alfred Molina, Marisa Tomei, Cheyenne Jackson, Manny Perez, Charlie Tahan.New York. Ben e George sono una vecchia coppia gay che finalmente convola a nozze, salvo poi ritrovarsi senza lavoro e senza casa. Finiranno ospiti (divisi) da parenti e amici. Per un attimo sembra Parenti serpenti in versione gay-intellettual-manhattaniana, solo che di Monicelli il regista Ira Sachs non ha la perfidia. Un film che spazza via ogni cliché nella rappresentazione degli omosessuali, rischiando però l’asfissia per eccesso di correttezza politica. I toni dell’amore si alza nell’ultimo quarto d’ora, in un’atmosfera sospesa e ambigua tra Haneke e Gus Van Sant. Ma, dopo la melassa inflittaci nell’ora precedente, non basta. Voto 5+
Quando ho visto Love is strange (questo il titolo originale, e non si capisce perché non se ne sia mantenuto il senso in quello italiano: mah, siamo alle solite) posizionato al numero 8 nella lista dei dieci film migliori del 2014 secondo i sofisticatissimi Cahiers du Cinéma, non ci volevo credere. Un film che a mio parere si colloca tra il medio e il mediocre consacrato nella top ten di quella che è stata, ed è, la più temuta, aristocratica e pure idiosincratica rivista di cinema al mondo? La mia sorpresa è direttamente proporzionale al fatto di non essere proprio riuscito ad amare I toni dell’amore, e se è per questo nemmeno il precedente e pure quello assai celebrato film del newyorkese Ira Sachs, Keep the lights on. Sachs: il quale con questo uno-due si è issato a nuovo, riconosciuto re del cinema indipendente a temi Lgbt riuscendo a conquistarsi un pubblico che non è solo quello delle rassegne e festival di film gay. Cinema che dal margine muove risolutamente verso il mainstream raccontando di omosessuali post (iper)moderni e metropolitani ben oltre la soglia, ampiamente varcata, del coming out. Omosessuali che incarnano la cultura dei diritti – richiesti e spesso ottenuti e realizzati – ormai egemone presso i ceti urbani d’Occidente, omosessuali assai bene integrati e lontanissimi da quelli clandestini, del sottosuolo, dell’era preliberazionista (mica per niente qui in una scena si rievoca la rivolta antipolizia che a Stonewall, New York, alla fine degli anni Sessanta diede il via a ogni movimento gay, e se ne parla come di uno spartiacque storico e antropologico). Sembra un’arcadia, quella in cui vivono i gay ritratti da Ira Sachs, che poi però con il procedere dell’azione e della narrazione – in Love is strange come già in Keep the lights on – si intorbida, si incrina, ingloba elementi disturbanti, si complessifica rivelando zone oscure e inaspettate, e non così riducibili all’attuale visione politicamente correttissima della condizione omosessuale. Dall’armonia (apparente) alla disarmonia. Che sarebbe poi un percorso drammaturgico molto, molto interessante. Un raschiamento di quella patina sberluccicante quanto inodore e insapore stesa dalla ideologia e dalla politica dei diritti (e dei desideri reclamati come diritti) sull’omosessualità. Solo che Sachs non ha mai il coraggio, e neppure la voglia e la lucidità, di esplicitare davvero le contraddizioni che adombra. Semmai le sfiora appena, le suggerisce, vi allude, in una pratica dell’ellissi e del non detto che finisce col diventare inconsistenza e impalpabilità. Dice, e soprattutto non dice, Ira Sachs, senza però riuscire ad essere meravigliosamente, proficuamente ambiguo. Solo vago, cauteloso, prudente, circospetto, che è tutt’altra cosa. Cosa mai vorrà dirci con questo film? Che la tolleranza così dichiarata e perfino sbandierata oggi verso i gay nasconde un groviglio di tensioni, rifiuto, rigetto? Che se tolleranza è, somiglia alla tollerenza repressiva di marcusiana memoria? (ma oggi, chi se lo ricorda più Marcuse?) Forse. O forse no. Forse Sachs vuole dirci e non dirci altro. Perché è maestro nell’aprire, sarebbe meglio dire socchiudere, finestre sul rimosso (individuale, sociale) per poi subito sprangarle.
Ben e George sono una vecchia coppia gay che decide di convolare a nozze dopo decenni di convivenza. Si comincia difatti con il loro matrimonio, in mezzo ad amici e parenti festanti e acclamanti, una scena da antologia del cinema gay orgoglioso di esserlo e politicamente ultracorretto. Che quando la nipote (acquisita) di uno dei due dichiara al party di aver capito cosa sia davvero l’amore coniugale vedendo Ben & George insieme, si tocca il massimo storico della gay-melassa in forma di film. Un’overdose zuccherina da cui rischiamo di non riprenderci più. Segue tutto un ciu-ciu e un pucci-pucci tra i due maturi sposini, solo che, pochi giorni dopo, ecco il patatràc. George, che di mestiere fa il maestro di coro in una scuola cattolica, vien licenziato per via delle sue nozze gay. Ora, ci si potrà anche indignare per la Chiesa retriva e omofoba e repressiva ecc. ecc., ma scusate, il buon George, che non è uno sprovveduto e anzi tra i due è il meno sognante e quello con più senso pratico, cosa si aspettava? Che i preti suoi datori di lavoro benedicessero l’unione con l’acquasanta e festeggiassero con i dolcetti messi in forno dalla perpetua? Questa, signori, si chiama inverosimiglianza, o smagliatura in fase di sceneggiatura. Da lì, da quel licenziamento, è un effetto valanga. Venendo meno uno stipendio, George e Ben sono costretti a mettere in vendita la loro casa in New York City, e siccome l’acquirente vuole entrarci subito, son costretti a chiedere ospitalità a amici e parenti. I quali, chiamati a raccolta ad ascoltare la richiesta della cara coppia, restano di sasso, e sembra di vedere il remake di Parenti serpenti di Monicelli in versione ultraliberal-manhattaniana. Là tutti i figli tremavano alla sola idea di doversi prendere in casa i vecchi genitori, qui succede altrettanto con i due gay solo pochi giorni primi festeggiati con tanto entusiasmo, ed è tutto uno scaricare, un io non posso, io non ho spazio, io ci ho i miei impegni e la mia vita ecc. Ben e George son costretti a dividersi, il primo va a Brooklyn dal nipote, sposato alla Kate suddetta e con un figlio adolescente ombroso e puntuto, il secondo da una coppia lui-lui di poliziotti fracassoni e caciaroni e molto proletari. Solo che siamo in Ira Sachs, mica in Monicelli, e dunque il fastidio verso il gay ospitato è tutt’al più alluso, cautelosamente accennato, come neutralizzato e ripulito perché non diventi incandescente, esplosiva materia narrativa (al massimo assistiamo alla insofferenza di Kate che, ohibò, fatica a scrivere il suo ennesimo romanzo per via di Ben che gira per casa, non so se mi spiego). Si insiste molto, aggiungendo ulteriore melassa alla già esorbitante quota dolciaria del film, su quanto soffrano per la forzata lontananza Ben e George, neanche fossero l’uno in Finlandia e l’altro in Mongolia. E, francamente, fin qui non si capisce cosa voglia raccontarci il film e dove voglia andare a parare, visto che ogni traccia narrativa di un qualche interesse viene subito abbandonata e depotenziata. I toni dell’amore prende quota, e ci fa intravedere quello che sarebbe potuto essere ma non è riuscito a essere, solo quando entra in scena il giovanissimo, ombroso Joey, il figlio adolescente di Kate e del nipote di Ben. Il quale ha una strana e anche pericolosa amicizia con un suo compagno di classe. Ed è questa sottotrama a prevalere a un certo punto, anche se troppo tardi, e ad aprire le finestre più interessanti. A condurre alla parte finale che è la migliore del film, che anzi è quasi, letteralmente, un altro film. Con il ritratto dipinto da Ben dell’amico di Joey. Con Joey coinvolto in una storia di furti a scuola. Con la tensione che sale (finalmente!) e il confronto duro tra Joey e il padre. Ira Sachs ci dice – anche in questa nuova fase – pochissimo di quel che sta succedendo, ma stavolta la sua pratica dell’ellisse e del non detto funziona, finendo con il costruire un’ambiguità sospesa tra Haneke e il migliore e più inquietante Gus Van Sant. Gli ultimi dieci minuti sono una meraviglia, ma non bastano a riscattare I toni dell’amore da tutto lo zucchero, le inconcludenze, le incongruenze, la sterilità narrativa dell’ora e passa precedente. Perché per arrivare al cuore (di tenebra?) della sua storia Sachs la prende così alla larga e alla lontana ammannendoci un edificante ritratto di una coppia gay da asfissiante manifesto ideologico? Così perfettina ed esemplare da risultare poco attendibile? Certo, John Lithgow e Alfred Molina sono mostruosamente bravi, soprattutto il secondo che, lui sì, e lui da solo, sa restituirci un personaggio gay per niente convenzionale. Pratico, roccioso, asentimentale. Peccato che l’autore lo immerga per gran parte del film in una storia senza storia. Bisogna riconoscere comunque al film il merito di evitare ogni vecchio stereotipo nel rappresentare la condizione omosessuale. Solo che, in tanto smussare e perbenizzare, in tanto idealizzare e scansare i peggiori cliché, il rischio è di piallare via parecchio della vita e della realtà.
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2 risposte a Recensione: I TONI DELL’AMORE. Troppa melassa, in questa storia gay politicamente correttissima