Recensione: VIVIANE. Un film imperdibile, con un’attrice (Ronit Elkabetz) che si merita tutto. Neocandidato ai Golden Globe

VIVIANE di Ronit e Shlomi Elkabetz (3)Viviane (Gett – The Trial of Viviane Amsalem), un film di Ronit e Shlomi Elkabetz. Con Ronit Elkabetz, Simon Akbarian, Sasson Gabai, Menashe Noy, Eli Gorstein. Israele.
VIVIANE di Ronit e Shlomi Elkabetz (4)Lanciato lo scorso maggio alla Quinzaine a Cannes, appena nominato ai Golden Globe per il migliore film straniero, Viviane è di quelle cose che chi ama il cinema (ed è curioso dl mondo) non dovrebbe perdersi. Israele. Una donna trascina il marito, che non vuole concederle il divorzio, davanti al tribunale rabbinico. Sarà una causa interminabile, una complessa partita tra lui e lei. Un film che si potrebbe definire femminista. Ma che sotto la scorza dei suoi messaggi e delle sue istanze nasconde di più. Girato con un’idea assai consapevole di cinema. E con un’attrice, Ronit Elkabetz, che davvero possiamo considerare l’erede di Anna Magnani. Voto 8VIVIANE di Ronit e Shlomi ElkabetzChe bel film. Da afferrare al volo, prima che venga dismesso da quei (non molti) cinema in cui i coraggiosi di Parthénos l’hanno distribuito. Una delle tante cose importanti, di gran peso, lanciate lo scorso maggio a Cannes dalla Quinzaine, ormai rassegna sempre più strategica, e da lì partito per vari festival e vari premi e riconoscimenti. Compresa la fresca nomination al Golden Globe come migliore film straniero (in compagnia di concorrenti però difficili da battere quali lo svedese Force majeure, il polacco Ida e il poderoso russo Leviathan). Un film che viene da Israele, con quell’attrice-meraviglia, e donna bellissima, che risponde al nome di Ronit Elkabetz. L’unica in my opinion che oggi possa essere apparentata a Anna Magnani, e considerarsi sua legittima erede. Magnani di cui ripropone la mediterraneità, la femminilità insieme solare e notturna, e oscura per troppo sole, sempre espressa al grado massimo della passione, dell’intensità. Qualcosa di archetipico, di affondato negli inconsci e negli immaginari di chi sta tra il Levante e Gibilterra, tra riva nord e sud del mare che veniva detto nostro. Con un che, pure, di Irene Papas. Che se ci fosse ancora il grande cinema italiano di qualche decennio fa chissà quali parti si sarebbero potute offrire a Ronit Elkabetz. Mai sentita? Mai vista? Peccato. Sarà il caso di rimediare correndo a vederla in Viviane. Dov’è mattatrice, dove sta da superdiva davanti alla macchina da presa occupando tutte le inquadrature con la sua faccia, il corpo, la voce e i silenzi, ma pure dietro alla mdp, regista insieme al fratello Shlomi con il quale costituisce da un bel po’ di anni un duo autoriale. Gett, il processo di Viviane Amsalem – questo il titolo originale – è il film conclusivo di una trilogia che insieme hanno varato, sviluppato e diretto, un progetto articolato in tre film sempre con lo stesso main character, Viviane, e focalizzato sulla sua storia di coppia e famiglia. Nel primo, Prender moglie (non son mai riuscito a vederlo), eccola sposa di Elisha, alle prese con un bel po’ di figli e una strisciante crisi coniugale, in un Scene da un matrimonio sotto il sole, e soprattutto negli interni, d’Israele. Nel secondo, Shiva – Sette giorni (notevolissimo, visto a una rassegna di cinema israeliano qui a Milano all’Oberdan), Viviane e il marito sono coinvolti in un lutto di famiglia. Segue la cronaca dei sette giorni di lutto prescritti nell’ebraismo, con incontri, scontri e rese dei conti tra parenti. Un matrimonio. Un funerale. Adesso, in Viviane, siamo al divorzio. Gett, il titolo originale, è il nome per dire in ebraico, e per decretare secondo la legge rabbinica, la fine di una vita coniugale. Divorzio, gett, che in Israele, come il matrimonio, è solo religioso, non essendo contemplato quello civile. E che, dettaglio fondamentale per entrare nella narrazione del film, dalla moglie può essere chiesto, ma che solo il marito può concedere. Viviane è per l’appunto questo, è la lotta – e non si esagera nel dirla tale – della protagonista per ottenere lo scioglimento del matrimonio, scioglimento che il marito si ostina a non concederle. Assistita da un avvocato di laiche visioni e valori, si rivolge al tribunale rabbinico – responsabile in materia – perché abbia quel che lui, Elisha, le nega risolutamente. Una causa che, assicurano gli autori, si ispira a fatti realmente accaduto in Israele, e che pone tra le molte questioni anche quella della laicità o non laicità dello stato ebraico. Il film è, nel suo impianto e anche nelle sue intenzioni, fin troppo esemplare e didascalico. Da una parte una donna che, semplicemente, rivuole la sua libertà e fuoriuscire da una vita coniugale soffocante. Dall’altra, un marito che dichiara di amarla ancora, che l’ha sempre formalmente rispettata, e che vuole a ogni costo mantenere in piedi l’unità della famiglia, o meglio il suo simulacro, perché Viviane – parrucchiera di mestiere e donna economicamente indipendente – ha da tempo lasciato il tetto coniugale per andarsene a vivere dalla sorella. Di fronte ai due contendenti, ecco i giudici del tribunale rabbinico il cui scopo primo è quello di non distruggere un focolare, un nucleo familiare ebraico. Conta più l’individuo o la comunità? Ma quante altre opposizioni binarie ritroviamo qui, e quante dialettiche contraddizioni si sarebbe detto un tempo. Laicità dello stato contro legge religiosa. La cultura dei diritti contro quella del vincolo e delle norme. La libertà di una donna contro l’oppressione psicologica esercitata da un marito. Anche, uomo contro donna, in una riedizione dell’eterna guerra dei sessi. Tutto questo è Viviane, che con un simile sovraccarico di ‘istanze’ e ‘tematiche’ in altre mani sarebbe diventato un fastidiosissimo manifesto ideologico. Però Ronit e Shlomi Elkabetz sono innanzi tutto narratori sopraffini e sanno di spettacolo e intrattenimento, e le suddette tematiche per nostra fortuna le nascondono e sussumono sotto una trama avvincente, messa in movimento da una macchina drammaturgica quasi perfetta, con una sceneggiatura che, a parte qualche lungaggine e ridondanza, è insieme tersa e tesa. Alle sue prime battute, la causa intentata da Viviane in tribunale affinché costringa il marito a darle quello che non vuole, sembra assai semplice. Non sarà così. La resistenza passiva ma tenacissima di Elisha, che non collabora, non si presenta, che quando si presenta non parla e delega a parlare il fratello, diventa un fattore decisivo di rallentamento e ostruzionismo. I rabbini giudici, dal canto loro, assecondano ora l’uno ora l’altra, ma senza decidersi mai a sciogliere il nodo. Passano i mesi, passano, incredibilmente, gli anni. Più di quattro. Con testimoni a sostegno ora di Viviane ora di Elisha. Con arringhe dell’avvocato di lei e del fratello di lui. Sempre nell’aula disadorna del piccolo tribunale, una stanza calcinata e polverosa in chissà quale piccola o grande città. Le parole, sempre, a far da direttrice al film. Teatro? Forse. Ma anche cinema. Puro cinema. Con uno stile assai consapevolmente scelto e adottato. Macchina quasi sempre fissa, puntata (molto, moltissimo) frontalmente su Viviane, su Elisha, sui giudici, sui personaggi collaterali che si avvicendano a raccontare quel che sanno di quel matrimonio adesso sotto esame rabbinico. Un linguaggio cinematografico anche di campi e controcampi, primi piani e no, essenziale, semplice, primario, eppure allineato a molta della più sofisticata autorialità di oggi, penso a registi come Roy Andersson o Ulrich Seidl. La faccia di Ronit Elkabetz, il suo corpo (sempre vestito di nero, a parte l’unica scena in cui è in rosso), la sua voce, i suoi gesti, feticizzati come solo alle grandi dive capita, e solo le grandi dive si meritano. Tant’è che, assistendo a questo esemplare courtroom movie, non si può non pensare a un altro processo filmico, a un’altra donna, alla Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer. E non sembri irriverente l’accostamento, o fuori luogo. Non lo è.

Poi, che ricchezza di significati, quante stratificazioni sotto l’apparente e rassicurante narrazione della libertà in rivolta contro l’oppressione. C’è un non detto, in Viviane, spesso molto più interessante dell’esplicito, del messaggio che fortemente ci viene ripetuto. Cos’è che davvero unisce e divide lei e Elisha? Perché Viviane vuole lasciare un marito che, come tutti testimoniano e i fatti comprovano, l’ha sempre rispettata? E che, oltretutto, sinceramente la ama, non ha mai smesso di amarla? Ci addentriamo in quel femminile, spesso così inconoscibile, fatto di ribellioni implose, frustrazioni accumulate, bovarismi, ansie di autorealizzazione e quant’altro, che anche qui conferma la sua inaccessibilità e irriducibilità a ogni spiegazione razionale. Viviane vuole il divorzio perché non vuole più stare con Elisha. Punto. Non c’è altro, non c’è bisogno d’altro. O no? E se Elisha non avesse tutti i torti nella sua sorda ostinazione, nel suo voler tenere unito il matrimonio oltre ogni ragionevolezza? Un nodo che il film grazie a Dio non scioglie, e se gli autori ci trascinano tutti dalla parte di Viviane, non fanno certo di Elisha un mostro. Benedetta ambiguità.
Viviane è anche un meraviglioso (e istruttivo, perché no) viaggio nella cultura dell’ebraismo mediterraneo, quello sefardita e quello dei mizrahi, degli ebrei impiantati nei paesi arabi – dal Marocco fino all’Iraq – da quasi duemila anni, fino alla fuga ed emigrazione di massa verso lo stato di Israele, o nei paesi europei, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Viviane e Elisha vengono da famiglie di ebrei marocchini assai religiosi arrivati in Israele senza però dimenticare tratti del loro mondo di provenienza. Andrebbe visto, questo film, in versione originale e senza doppiaggio, perché l’uso della lingua, delle lingue, è fondamentale elemento. La protagonista e il marito si rivolgono (quando si parlano) in francese, ogni clan familiare – di lui e di lei – usa spesso l’arabo. Le lingue del passato delle comunità israelitiche in Marocco. Mentre l’ebraico, lingua dell’oggi e del dopo-immigrazione, subentra negli scambi con i giudici. Ma questo film-processo è anche un trionfo di mediterraneità. Con uno stuolo di caratteristi meravigliosi che ricordano quelli del nostro cinema popolare anni Cinquanta, in una lingua del corpo che abbiamo visto infinite volte praticata nei film con la Magnani, con Peppino, con la Loren, con Totò. LesInrocks ha tirato in ballo a proposito di Gett il più meridionale dei cineasti francesi, Marcel Pagnol, a me è venuto in mente Il processo di Frine di Blasetti, con la gran coppia Lollobrigida-De Sica, e gli Aldo Fabrizi-movie, e Mattoli, e Mastrocinque. Viviane è anche un’immersione nei modi del nostro cinema com’era, e non è più, irrimediabilmente.

i fratelli Ronit e Shlomi Elkabetz, registi del film

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