Sscusate l’autocitazione, e a costo di sembrare inelegante dico: l’avevo detto. L’avevo detto e scritto (qui la recensione), subito dopo averlo visto al festival di Torino 2013 – dov’era fuori concorso, se no li avrebbe massacrati tutti i film della competizione -, che Ida era una micidiale, irresistibile, invincibile macchina da festival. E da premi. Bastava guardarlo senza paraocchi e pregiudizi per capirlo, non occorrevano speciali doti sciamaniche e profetiche. Mi chiesi anche come mai Barbera se lo fosse lasciato scappare e non l’avesse preso in concorso a Venezia 2013. Non ho informazioni riservate al riguardo, anzi non ho proprio informazioni, e se qualcuno me le fornisce ringrazio già da adesso. Certo, può darsi che Ida (il regista, ricordiamolo, risponde al nome di Pawel Pawilowski) non sia stato nemmeno sottoposto dai produttori all’attenzione ai selezionatori del Lido peché ancora in postproduzione. Eppure eccolo rispuntare poco dopo in concorso al London Film Festival, dal 9 al 20 ottobre 2013, quindi a un mese esatto da Venezia, il che potrebbe far pensare che fosse già pronto prontissimo, e che semplicemente alla Biennale non se ne siano accorti. Sarei naturalmente ben contento di essere smentito.
Allora: Ida va al London Film Festival e vince, stravince. È l’inizio di una lunga marcia che lo porta in vari altri festival e in quasi tutti i paesi d’Europa, e poi in America, e dappertutto piovono recensioni eccellenti e incassi dignitosissimi (anche in Italia è andato bene, uno dei pochi film autoriali a essersela cavata in un anno non felice per il cinema non mainstream). Negli Usa, per dire, ha finora raccolto quasi 4 milioni di dollari, che per un titolo del circuito specialty-arthouse è cifra ragguardevole, tenendo conto che con le nomination a Golden Globe e Oscar il conto potrebbe salire parecchio (per rendere l’idea: l’anno scorso il molto promozionato e oscarizzato, e sospinto da una stampa amica, La grande bellezza non è neanche arivato ai 3).
Ieri sera a Riga agli Efa Awards, impropriamente e non senza pigrizia chiamati Oscar europei, ha fatto saltare il banco e ha razziato tutto il conquistabile. Abbattendo concorrenti di peso e gran qualità come Leviathan, Winter Sleep, Force Majueure, Due giorni una notte, Nymphomaniac. Scendendo nei dettagli, il film del polacco Pawel Pawilowski (e però basato a Londra da una vita) si è presol’Efa nelle tre categorie più importanti: miglior film; migliore regista; migliore sceneggiatura. Più quello per la migliore fotografia (ah signora mia, il bianco e nero c’ha sempre il suo perché). Non bastasse, Ida si è messo in tasca anche il premio del pubblico. Una potenza di fuoco da paura. Confermata dal fatto che parecchie delle classifiche sui migliori film del 2014 lo hanno incluso in buona posizione, vedi quelle (in versione UK e Usa) del Guardian, o di Film Comment. Solo di pochi giorni fa è la notizia della sua nomination al Golden Globe categoria miglior film in lingua straniera, e a questo punto non ci possono essere dubbi sul fatto che tra prissimamente entrerà anche nella shortlist per l‘Oscar nella stessa categoria. Nel mercato internazionale arthouse e nei premi Ida sta replicando l’inarrestabile cursus honorum di qualche anno fa di Amour di Haneke. Che ovunque lo mettessi in gara, invariabilmente vinceva. Un film cannibale.
Vien da chiedersi da dove venga la forza di Ida. Il film, sul cui livello non si può discutere, miscela alcuni elementi peculiari di quel cinema detto di qualità che esercita sempre una fascinazione notevole sul pubblico più adulto e acculturato e sulla stampa internazionale. Un film che visibilmente si connota come diverso e altro rispetto al prodotto mainstream. L’uso del bianco e nero, innanzitutto, che si fa sigla e segno di cinema alto e autoriale, e che in questo caso è anche una citazione puntuale, colta e filologica di certi film est-europei anni Cinquanta e Sessanta. L’austerità e l’eleganza della messinscena. Soprattutto, la focalizzazione su un groviglio sanguinoso e sempre dolente come la Shoah. Se l’Holocaust-movie ha rischiato, rischia ancora, di codificarsi in genere, Ida ha l’abilità di sfiorarlo, quel genere, per poi scostarsene. La complessità identitaria della protagonista, una novizia di un convento cattolico che apprende dalla zia di essere in realtà ebrea, è già una notevole differenza rispetto al modello narrativo di tanto cinema sulla fine degli ebrei d’Europa (per dirla col titolo di un libro ormai classico). Ida è stata affidata alle suore dopo che i suoi genitori sono stati ammazzati. Ma come? da chi? Incomincia il viaggio delle due donne in cerca del passato sepolto, del perché quella famiglia ebrea, pur nascosta e protetta, sia stata uccisa durante l’occupazione nazista. Sarà una verità scomoda. Più che dell’Olocausto, si parla del dopo, delle ricadute psichiche su chi è sopravvissuto (la zia), delle viltà, delle resonsabilità e delle colpe di chi sapeva ma fingeva di non sapere, e magari collaborava con gli occupanti e denunciava. In Una Polonia comunista primi anni Sessanta rievocata con precisione storiografica e antropologica, e malata ancora e sempre di sotterraneo antisemitismo. Difficile non applaudire un film così, difficile non premiarlo.

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5 risposte a Fenomeno IDA: il film che ha sbancato gli Efa e si prepara alla conquista di Oscar e Golden Globe. Un film-cannibale