Recensione. ‘LO HOBBIT – La battaglia delle cinque armate’. Finalmente si chiude la saga, e meno male

THE HOBBIT: THE DESOLATION OF SMAUGLo Hobbit – La battaglia delle cinque armate. In 3D. Un film di Peter Jackson. Con Martin Freeman, Luke Evans, Orlando Bloom, Cate Blanchett, Ian McKellen, Richard Armitage, Evangeline Lilly, Benedict Cumberbatch (la voce di Smaug nell’originale).HBT3-fs-346534.DNGArriva alla sua fine, un po’ arrancando, la trilogia dello Hobbit. Questo terzo episodio è meglio del noiosissimo secondo, con una trama meno contorta e più intellegibile: semplice, c’è un tesoro rimasto senza padrone, e la lotta per acchiapparselo. La prima parte si lascia guardare volentieri, poi il film peggiora nelle solite, interminabili, ripetitive battaglie con gli Orchi che chissà perché Peter Jackson ama tanto. Voto 6THE HOBBIT: THE DESOLATION OF SMAUGSarà davvero l’ultima puntata dell’interminabile e ormai estenuante saga tolkeniana/peterjacksoniana 3+3? 3 Lord of the Rings, 3 Hobbit. Così si evince dalle dichiarazione del regista. Ma siccome Tolkien ha lasciato scritte altre cose di massima fantasyosità e sapienzialità, se al massiccio neozelandese venisse di nuovo voglia (pungesse vaghezza, come dice una mia amica) di metterci le mani, qui c’è il rischio di dovercela vedere per le decadi prossime venture con elfi, nani, orchi, terre di mezzo e di tre quarti e chissà cos’altro. Per l’amor di Dio, diamoci un taglio. Per me, che ho in uggia il fantasy e per appartenza generazionale non ho il venerato Tolkien tra i miei autori guru (che volete, ai miei tempi lo si considerava una roba poco seria, e pure un po’ fasciosospetta, anche se non s’è mai capito perché) sarebbe una sciagura. Passi per Il signore degli anelli, che ha davvero ridisegnato il cinema di genere e riplasmato lo spettatore unico globale nelle sue percezioni e gusti. Ma la trilogia dello Hobbit gli sta al di sotto. Lenta, arrancante, stirata faticosamente come in un cattivo esercizio di stretching. Primo episodio passabile, secondo pessimo, questo terzo e ultimo un po’ meno pessimo. Però noiosissimo nell’ultima parte. La cosa migliore resta di gran lunga il suo antieroe borghese Bilgo Baggins, ometto qualunque di gran buonsenso e acume, coraggioso eppure privo di ogni vocazione eroica, e costretto a farlo, l’eroe e il guerriero, dalle circostanze, altrimenti lui se ne sarebbe stato sempre nel suo carinissimo villaggio e nella sua casa così british-settecentesca molto alla Fielding (e un po’ Barry Lyndon) a scriver libri e coltivare piante. Meraviglioso personaggio di un pacifismo non petulante e non ideologico e messaggistico, ma per così dire naturale, genetico. Pantofolaio e portato alle piccole comodità quotidiane, al quieto vivere. Un Bilbo cui Martin Freman ha prestato in questa trilogia la sua faccia da contadino assennato e furbo bertoldo, in piena aderenza psicosomatica al personaggio. Non si parte male, in Lo Hobbit parte terza. Il drago Smaug padrone assoluto di Ereborn e custode del suo immenso tesoro – letteralmente una montagna di oro – viene abbattutto dall’arco di Bard l’Umano. Ma la città sull’acqua abitata dalla gente dell’arciere è andata distrutta nella battaglia contro la bestia, e adesso i sopravvissuti devono emigrare in cerca di una nuova patria, di un rifuglio, ed è una delle parti migliori, un esodo che sta tra quello dei demilliani Dieci comandamenti (in attesa dell’imminente Exodus di Ridley Scott) e le masse di diseredati che ogni giorno vediamo nei tiggì national e international vagare da una terra desolata all’altra. Si dirigono verso Ereborn, dove troveranno anche il Re degli Elfi (che sembra sempre lo Scialpi di venticinque anni fa) e il suo esercito. Tutti vogliono una parte del tesoro lasciato da Smaug, ma dovranno sorprendentemente vedersela con la compagnia dei Nani che hanno occupato la montagna e adesso non la vogliono mollare. Con il loro capo Thorin Scudodiquercia che ha perso il senno per tutto quell’oro, è stato tarantolato dall’avidità, è ormai preda della hybris che l’ha reso folle e cieco. Ecco, fin qui il film scorre fluido, finalmente con una trama intellegibile e senza certi contorcimenti dei due espisodi precedenti. Un racconto basico, elementare. Un immenso tesoro e troppi pretendenti. Stavolta si capisce tutto, non bisogna strizzare i neuroni o essere nerd assatanati di tolkenismo e hobbittismo e adepti del culto esoterico dell’anello per decrittare i vari snodi del racconto. Peccato che con l’arrivo degli Uomini e degli Elfi sotto la montagna, e l’occupazione della Compagnia dei nani, Lo Hobbit 3 sia già narrativamente giunto al suo capolinea, o quasi. Essendo il resto del lunghissimo film (due ore e mezzo, mannaggia, troppo) occupato da tutto un mena-mena e taglia-taglia (teste, arti ecc.) tra Umani, Elfi, Nani da una parte e due-armate-due (ma perché poi?) di Orchi dall’altra. Forse non avendo abbastanza carne a disposizione per raggiungere il minutaggio stabilito dal marketing, Peter Jackson ci ammorba, come già aveva fatto in Lo Hobbit numero 2, con interminabili e noiosissimi scontri, duelli, imboscate, agguati, minibattaglie e maxibattaglie con quelle schifose creature. Da tagliarsi le vene. Peccato, perché per la sua prima metà il film si lascia guardare. Con però un errore da matita blu, e non saprei se del testo originario di Tolkien o della sceneggiatura. Mi riferisco alla decisione di Bilbo di nascondere la pietra magica (Arken-qualcosa) al suo capo in preda a delirio di onnipotenza per poi consegnarla di nascosto ai nemici. Lo fa a fin di bene, certo, ma è pur sempre un tradimento, un’infamata, giratela come volete, che getta un’ombra sul personaggio.
Luke Evans come capo degli uomini è al solito incantevole. Il ritorno di Orlando Bloom/Legolas produce un paio di sequenze memorabili (fantastico il duello sulle pietre che franano). Però, che c’entra mai la scena con Cate Blanchett regina degli Elfi o comediavolosichiama, del tutto sconnessa dalla restante trama narrativa e incastonata lì giusto per rifarci vedere la Blanchett neo-oscarizzata? Superfluo anche Gandalf, con il suo inseparabile cappello da strega del mago di Oz, che deambula senza mai farci capire (almeno io non l’ho capito, e non mi sono manco sforzato, se è per questo) cosa mai ci stia a fare nel film. Sarà anche un’icona della saga, ma santo cielo, sceneggiatori, cercate almeno di giustificarne la presenza. Cose belle: la città ai piedi di Ereborn, subito occupata dalle orde stracciate degli umani esuli, con le sue architetture fantastiche, prodigiosa miscela di stili e stilemi medievali e moderni, antico-occidentali e antico-orientali. Ecco, questo è Jackson al suo meglio. I paesaggi neozelandesi fan sempre egregiamente il loro dovere.

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