Phoenix, un film di Christian Petzold. Con Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Nina Kunzendorf. Germania. Phoenix uscirà in Italia con il titolo Il segreto del suo volto il 19 febbraio.

Photo credit: International Film Festival Rotterdam
Germania anno zero. Nelly, ebrea miracolosamente sopravvissuta ai campi, torna con una nuova faccia rifatta dal chirurgo. E riavvicina il marito che l’ha venduta ai nazisti, e che adesso non la riconosce. Una donna che ha vissuto due volte, e con due volti, ricca di echi hitchockiani. Gran bella storia, che però il regista tedesco Petzold non sfrutta adeguatamente. Ma attenzione: è uno di quei film che potrebbero fare molta strada nella stagione dei premi americani (quelli del 2016). Voto 6

Photo credit: International Film Festival Rotterdam
Pienone di publico pagante qui a Rotterdam, e convinti applausi alla fine per questo Phoenix della premiata coppia tedesca Christian Petzold-Nina Hoss, lui regista lei attrice e sua musa, che già con Barbara aveva conquistato non solo la patria Germania, ma anche parecchi mercati esteri (e però in Italia, dov’è stentatamente uscito, non se l’è filato nessuno. Al solito). Lo inseguivo da un po’, e finalmente eccolo qui all’IFFR, in una delle sale del De Doelen, il centro culturale polivalente (sale di cinema e sale da concerto) che è anche l’epicentro del festival. Lo inseguivo, e con parecchie attese, perché Barbara mi era molto piaciuto, e perché quando Phoenix era stato presentato lo scorso settembre a Toronto i critici anglofoni eran caduti in deliquio scrivendone meraviglie e, in un sondaggio indetto da IndieWire, lo avevano votato come il miglior film del festival. Però un po’ deluso sono, ecco. Petzold impagina diligentemente – con troppe concessioni alla sua musa Nina, e con troppe lentezze e manierismi da cinema d’atmosfera di una volta, anche con vezzi da vecchio cineclub – , una storia fantastica e potenzalmente esplosiva. Per la quale ci sarebbe voluto il mai abbastanza compianto Fassbinder. Lui sì che ci avrebbe cavato un capolavoro. Un melodramma con una donna che visse due volte, molto hitchcockianamente, e anche, per via della chirurgia plastica, con molti echi di La pelle che abito di Almodovar e Occhi senza volto di Franju. Berlino, immediato dopoguerra. Germania sconfitta, macerie dappertutto, americani nuovi padroni. Tutto in un clima torbido e amorale tra Germania anno zero, Scandalo internazionale e Il terzo uomo. L’ebrea Nelly, tornata miracolosamente dai campi, è accolta dall’amica Lene, ben decisa a raggiungere con lei la Palestina. Ma Nelly per un incidente resta sfigurata, le devono ricostruire la faccia. Vuole tornare a essere quella di prima, non lo sarà mai più. Guarita e con una nuova faccia, si mette alla ricerca del marito Johannes, pianista, anche se ha saputo che è stato lui a tradirla con i nazisti, per poi subito divorziare da lei. Lo ritrova, in un ambiguo club chiamato Phoenix. Lui non la riconosce, ma resta colpito dalla somiglianza con la moglie che crede morta nei lager. Subito la proposta: fingi di essere lei, di essere sopravvissuta ai campi, così possiamo mettere le mani sul suo patrimonio e poi spartircelo. Nelly accetta per stare vicina a lui, ritrovandosi così a interpretare la parte di se stessa, a recitare se stessa. Con ovvii pirandellismi (mica per niente Come tu mi vuoi è ambientato proprio a Berlino) e hitchockismi rifatti letteralmente. Come quando Johannes le fa indossare i vestiti e le scarpe della presunta defunta, la induce a truccarsi e camminare come lei. Pura citazione di James Stewart e Kim Novak in Vertigo. Non dico altro, in ottemperanza all’omai dilagante paranoia dello spoiler. Dico solo che c’è un gran bel finale che riscatta parecchio di quello che non va nel film. Come le incongruenze macroscopiche: ma se il marito non la riconosce, perché mai i parenti e gli amici dovrebbero prenderla per la vera Nelly? Petzold non sa cavare dalla sua pur notevole materia narrativa quell’ambiguità e quella sospensione che sarebbero state necessarie a elevare il film oltre il buon mestiere, e anche oltre le buone maniere. Ci sarebbe voluto, che so, non solo un Fassbinder, ma anche il Losey di Mr. Klein, ma Petzold in tutta evidenza non è fatto di quella stoffa. È bravo, onesto, molto professionale, ma alla fin fine confeziona un morbido film per signore da domenica pomeriggio, non molto di più. E però attenzione, Phoenix potrebbe diventare sul mercato anglofono un big success, uno di quei film che incantano gli americani e son capaci di beccarsi nomination su nomination a Golden Globe e Oscar (si parla di quelli del 2016, ovvio). Potrebbe insomma ripetere il cursus honorum di Ida, cui lo apparentano superficiali analogie, ma di cui non ha la densità.
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