RotterdamFilm Festival Daily. I film che ho visto domenica 25 gennaio 2015

Me Quedo Contigo (Photo credit: International Film Festival Rotterdam)

Me Quedo Contigo (Photo credit: International Film Festival Rotterdam)

Set Me Free (Photo credit: International Film Festival Rotterdam)

Set Me Free (Photo credit: International Film Festival Rotterdam)

1) Brave Men’s Blood di Olaf de Fleur Johannesson. Islanda. Sezione Spectrum. Voto 6 e mezzo
L’Islanda da un po’ è terra produttrice di noir, crime-story, cop-movies luridi e cattivi al punto giusto. Da non confondere con i thriller scandinavi, che sono tutt’altra cosa (e sono mediamente anche più noiosi). In questo Brave Men’s Blood tutto si svolge in una Reykyavik linda quanto sinistra e piena d’ombra, e pericoli e minacce appena mascherati dietro la nordica, pulitissima facciata. Un noir urbano, senza nemmeno un po’ di quei paesaggi islandesi che ritroviamo in tanto fantasy, e di geyser non c’è traccia. C’è del marcio all’interno della Narcotici, il capo è colluso con il boss della mafia serba che controlla il traffico di coca. Lo spietatissimo Sergej si è impossessato del territorio spodestando con rudi modi balcanici il precedente re del malaffare, il locale Gunnar. Proprio tra Gunnar e il giovane protagonista, agente degli Internal Affairs, si stabilirà un’alleanza tattica per far fuori sia il nuovo boss sia il giuda nascosto in polizia. Certo, tutto déjà vu, ma benissimo scritto e girato. Con un’implacabilità e un rigore assolutamente nordici. Tutto intriso di un forte senso della colpa, del peccato, dell’espiazione. Con un finale amarissimo e angoscioso per il dilemma etico che il protagonista è costretto ad affrontare. Una buona sorpresa. Con i popoli dell’est Europa a incarnare nell’immaginario del profondissimo Nord i nuovi barbari portatori della più efferata violenza (anche in In ordine di sparizione, il crime norvegese presentato l’anno scorso alla Berlinale, i cattivi mafiosi eran serbi).
2) Above and Below di Nicolas Steiner. Germania/Svizzera. In concorso per l’Hivos Tiger Award. Voto 5
Indipendente, indipendentissimo. Docu girato in America (ma il regista è made in Europe) che viene a raccontarci storie di vari dropouts – gente fuori di testa o scagliati fuori dal consesso sociale – tra Las Vegas e il deserto lì intorno. Purtroppo insopportabilmente lungo, due ore e un quarto, quando 90 minuti sarebbero stati anche troppi. Simile in quel che ci ha mostrato Navajazo, il documentario messicano che ha vinto a Locarno 2014 la sezione Cineasti del presente (e poi IL mIlano film Festival), pure quello pieno di esistenze disperate di frontiera e di margine, e la frontiera era anche tra Stati Uniti e Messico. Solo che di quel piccolo capolavoro Above and Below non ha la secchezza, l’approccio fenomenologico. Sbandando invece parecchio sull’estetizzazione della miseria e sul biografismo sentimentalizzante dei suoi protagonisti. Per cominciare: una banda di matti capitanati da una signora reduce dall’Iraq che si addestrano nel deserto alla futura vita su Marte, convinti come sono che il nostro pianeta sia destinato a una prossima fine. Tutto un andare e venire tra pietre e paesaggi lunari in improbabili scafandri da astronauti e con trabiccoli Nasa dismessi probabilmente acquistati su eBay. Il secondo oggetto dell’indagine del regista è un ex truck driver che dopo vari disastri di famiglia (“mia moglie pensava solo al crack”) ha mollato tutto andando a vivere solitario in una ex baracca militare. Gli altri dropouts sono il popolo dell’abisso di Las Vegas, quelli che vivono in un tunnel-canale disseccato, con particolare attenzione del regista per una coppia, lui 39 anni, lei parecchi di più, con ex mariti e figli disseminati per gli Stati. Anche loro, m’è parso di intravedere, fumatori di crack. Cose già viste e raccontate, anche meglio, da altre parti.
3) Me Quedo Contigo. Regia di Artemio. Messico. Sezione Signals. Voto 2
Duro da reggere, anche per palati e stomaci adusi al peggio cinema. E per peggio intendo il più sanguinoso, violento, raccapricciante, pulp, schifoso. Il regista, un messicano che si firma solo come Artemio anche se un cognome ce l’ha (Narra), è un artista-performer che – ci dicono le note di presentazione – da tempo con il suo lavoro intende indagare e ovviamente denunciare la violenza endemica nel suo paese (in primis quella dei cartelli narcos, suppongo) mettendola in scena, mostrandola, portandola alla superficie e all’evidenza. Adesso con questo equivoco e malsano Me Quedo Contigo il signor Artemio estende anche al cinema il suo progetto. Mah. L’impressione è che qui si traffichi con i modi dell’horror più turpe, del torture porn, con malcelata soddisfazione, e che quello della denuncia della violenza sia un alibi fragile, di cartavelina, per sfrenarsi in uno spettacolo del sangue e del massacro. Me Quedo Contigo è lo Springbreakers messicano, con quattro ragazzacce che si trasformano in furie selvagge e sanguinarie. Solo che non c’è il senso dello stile di Harmony Korine, solo un’ironia greve da trivio (avrebbero detto le zie), un’estetica camp da novela messicana, enormi buchi di sceneggiatura, verosimiglianza latitante. Una bella spañolita arriva da Madrid per incontrare il suo amato Esteban, fine antropologo (cameo di Diego Luna). Troverà ad accoglierla tre signorine di Città del Messico che la porteranno in una villotta, in attesa che il misterioso Esteban finalmente si palesi. Sono sboccatissime, di una volgarità esagerata anche per il cinema attuale. Con tutto quel parlare ossessivo di scopate, pompini, cazzi. E quel darsi della puta l’un l’altra (“Te sembro vestita da puta?” “Sìììììì”). Figuriamoci la spagnolita perbene come ci rimane. Verrà coinvolta dalle tre streghe in una notte brava: caricano su in macchina un cowboy tutto di bianco vestito e assai macho e lì comincia il macello. Lo scopano furiosamente in due e quando lui comincia a scocciarsi per il troppo fervore erotico delle ragazze del mucchio loro lo tramortiscono con il calcio della pistola (la pistola di lui). Quindi lo trascinano in casa, lo legano, gli fanno ingollare a forza pilloloni di Viagra, cominciano a torturarlo. Con lui a cazzo rittissimo e visibilissimo (una protesi, suppongo). Anche la spagnola bon ton per via della troppa tequila molla ogni freno e partecipa alla mattanza. Sarà un’escalation. Il povero macho prigioniero verrà tagliuzzato con le forbici, col suo sangue le erinni decoreranno il proprio corpo e le pareti (che si palesi qui la vocazione artistica del regista?), in un sabba infernale. Lo sodomizzeranno con una statuetta simil-Oscar. Lo umilieranno usandone il cazzo come finto microfono per pessime esibizioni canore. Please, non tiriamo fuori il potere oscuro del femminile, la rivincita sul maschio e altre cazzate. Queste quattro sono delle stronze e basta. Anzi, delle criminali psicopatiche. E questa è pura pornografia del sangue. Punto. Però se appena appena qualcuno lo adotta e lo lancia, Me Quedo Contigo ci rischia di diventare un culto internazionale.
4) Another Trip to the Moon di Ismael Basbeth. Indonesia. In concorso per l’Hivos Tiger Award. Voto 4
Più Rotterdam Festival di così. Un film indonesiano (però girato anche grazie a un fondo di sostegno di nuovi autori del festival) che mette in immagini un racconto orale, un mito di quella cultura. Non è che ci spaventi l’altro etnico, siamo gente di mondo, qualcosa di etnologia e antropologia l’abbiamo pure appreso, quanto basta per non sorprenderci di fronte a cose così. Il problema è un altro, è che il film è noiosissimo, e non per l’arcana storia che racconta. No, per l’insostenibile compunzione arty che trasuda da ogni inquadratura. Oltretutto mescolando, per far più avanguardia e meglio épater i critici dei festival, il tempo mitico e quello della modernità. Con passaggi dal fuori della storia a dentro la storia (di oggi). Immagini arcaiche in cui irrompono giocattolerie contemporane e visioni tecnologiche. Ci siam capiti, no? Ambizioni tante, ma il risultato è scarso. In una foresta vediamo due giovani donne (o forse uno è un uomo, non si capisce molto bene) accoccolate in un nido come le due parti dell’yin e yang all’interno del cerchio, e già questo. Sono guerriere e predatrici, si dividono il lavoro, una cerca le esche per i pesci, l’altra i pesci li centra con la sua lancia. Poi una delle due vien uccisa da un fulmine e rapita in cielo dagli Ufo. L’altra non si dà pace, por’anima. Tant’è che esce dalla foresta, prende l’autobus, diventa una ragazza di oggi, si sposa, ha un figlio, Qualche anno dopo, soggiacendo letteralmente al richiamo della foresta, tornerà nella natura selvagga da dove è venuta, e dove ad accoglierla troverà la sua metà perduta. Pretenziosiossimo, con troppi tramonti e troppi paesaggi e etnografismi da National Geographic. Con parecchi inserti di danza indonesiana, e allora m’è venuto in mente quello spettaclo di Bob Wilson dal titolo impossibile – qualcosa tipo LaLiGo – che proprio un mito indonesiano metteva in scena. Ma eravamo ad altre altitudini.
5) Set Me Free di Kim Tae-Yong. Corea del Sud. Sezione Bright Future. Voto 7+
Un altro film coreano di questo festival che nelle varie sezioni ne allinea una moltitudine. Qui siamo in un racconto adolescenziale e familiare, privo di ogni vezzosità stlistica, girato in modo basico ma di massima eficacia, e con una sceneggiatura molto ben scritta. Ritratto senza pietà di relazioni malate, manipolatorie, di uso, tra ragazzi, tra figli e genitori, tra fratelli, tra ragazzi e gli adulti che pure dicono di aiutarli. Con il personaggio di adolescente più inquietante e disturbante da un bel po’ di tempo in qua (se si escludono gli horror, ovvio), viso angelicato, ma dentro fatto della materia dell’inferno. Un calcolatore. Un ambizioso che vuol tirarsi fuori dalla merda in cui il destino l’ha scagliato alla nascita ed è intenzionato a fare la sua scalata sociale, a qualunque prezzo. Siamo nella Corea cattolica (il cattolicesimo è presentissimo nei film made in Seoul), presso una coppia benestante che si prende in affido per solidarismo, per carità cristiana, ragazzi disagiati, difficili. John, questo è il suo nome di battesimo, perché quello coreano è molto più complicato, ha un padre (biologico) che non lavora, una madre malata, e lì, in quella casa di ricchi, ha trovato da figlio quasi-adottivo la sua cuccia, e intende difenderla. Ha capito che la Chiesa può garantirgli un rifugio sicuro e dunque ha deciso che, non appena possibile, entrerà in seminario e si farà prete. Non si perde una messa, è devotissimo. Ma c’è anche quell’altra sua faccia. Ruba dal negozio dei genitori affidatari scarpe da rivendere ai compagni di scuola e quando se ne accorgono lascia che la colpa cada sull’altro ragazzo in affido con cui divide la stanza. Con la famiglia naturale John ha rotto i ponti, se ne vergogna, non ne vuole più sapere. Ci saranno drammatici sviluppi, fino a quando l’implacabile angelo demoniaco farà un passo falso. Agghiacciante, letteralmente. Nessuna crudeltà (psicologica) è risparmiata, tutti i personaggi si affrontano e dilaniano in dialoghi spietati e affilati come lame. Una delle sorprese di questo Rotterdam. Alla fine, un grande applauso, alla presenza del regista, giovanissimo.

Questa voce è stata pubblicata in cinema, Container, Dai festival, festival, film, recensioni e contrassegnata con , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Una risposta a RotterdamFilm Festival Daily. I film che ho visto domenica 25 gennaio 2015

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.