Berlinale 2015. Recensione di THE DAYS RUN AWAY… Il primo film (per la stampa) è un indigesto prodotto indie

The Days Run Away Like Wild Horses Over the Hills (I giorni scappano via come cavalli selvaggi sulle colline), un film di Marcin Malaszczak. Con Natalie Warlow, Marie Christine Brehmer. Germania/Polonia/Usa. Sezione Forum.201506469_2Non c’era altro da vedere a quell’ora, così son corsi in molti a vedere questo film della più sperimentalista sezione della Biennal, Forum. Un perfetto compendio di vizi, vezzi e cliché del cinema autorial-avanguardista di oggi. Voto 4
Stamattina alle 9,30, in una delle sale del Cinemaxx, primo screening a uso della stampa, e anche prima proiezione assoluta di questa Berlinale 65. Essendo l’unica cosa vedibile a quell’ora – d’oggi in poi non sarà più così, anzi il problema sarà quello opposto di scegliere dolorosamente tra film sovrapposti e in contemporana – era quasi pieno. Epure si trattava di un film assai ostico e pretenzioso e sperimentalista-avanguardista della sezione Forum, mica per niente la più edgy di tutto il festival. Prima che le luci si spegnessero è stato tutto un salutarsi e riconoscersi tra regulars che da un festival all’altro si ritrovano, con un gruppo di spagnoli particolarmente ciarlieri e chiassosi, compreso il giornalista (lui però non così ciarliero) che all’ultimo Venezia Festival contestò rumorosamente da posizioni animaliste-integraliste il film turco Sivas, reo di mettere in scena combattimenti di cani. Tutti qui, alle zusammen al primo screening. E pure un’arcigna coppia tedesca di mezza età avanzata, sapete, proprio tedeschi-tedeschi, che teneva impegnata con cappottini e borse la bellezza di quattro o cinque posti per parenti e amichetti in arrivo, e poi dicono degli italiani furbi e scorretti. Ma dov’è finito il leggendario senso delle regole della Germania? Poi il film. Estenuante. Anche se per fortuna il supplizio è durato soli 71 minuti. Recitato (insomma: detto) in inglese, tedesco e polacco, a seconda di location, situazioni e persone. Un compendio di cliché, vizi e vezzi dell’attuale cinema indipendente da festival che non deve chieder mai e si crede in diritto di fare e raccontare quel che vuole e come vuole. Attori che non sono attori ma gente che recita la propria vita, o semplicemente la vive, nella solita confusione oramai imperante tra documentario e fictionalizzazione che è una delle (s)regole del cinema nuovo. Macchina a mano ora mobile e isterica, ora immobile a immortalare paesaggi ghiacciati o gente impegnata in interminabili operazioni di ordinarissima quotidianità, tipo tentare di accendere senza riuscirci una stufa, stirare e altre spettacolarissime attività dello stesso tipo. Passaggi dal colore al bianco e nero e ancora al colore, che chissà perché dovrebbero certificare l’autorialità dell’opera. Per dire che? Per farci vedere che? Storie di donne, anche se la parola storie è forzata, perché qui ogni narrazione è decostruita e divelta, altro vezzo del cinema d’oggidì. Tre amiche si sbronzano a un party. La mattina dopo vediamo una di loro ubriaca con super hangover alla prese con la sua figlioletta che, nonostante i due anni o poco più, mostra di essere più saggia e simpatica di mamma. Poi la vediamo farsi una canna e fare la nanny ad altri pargoli. La scena si sposta in Polonia (parlan polacco) con una signra che fa il giro – è un’infermiera? una badante? un’amica? una vicina? – tra vari anziani raccogliendone le voci e i drammi. Giorni che scappano via come cavalli selvaggi sulla collina: la citazione è da Bukowski. Ma rappresentare questo senso di perdita e di vuoto atraverso il vuoto e il nulla non serve, se non a annoiarci e indisporci. Parecchie fughe in corso di proiezione, compresa quella della giapponese seduta accanto a me, ed è strano, perché i connazionali suoi sono disciplinatissimi e non si abbandonano di solito a simili debolezze. Loro anche i più amari calici, come questo film polacco e un po’ apolide, li delibano fino alla fine. Stavlta anche l’incrollabile Giappone ha ceduto.

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