Journal d’une femme de chambre, un film di Benoît Jacquot. Con Léa Seydoux, Vincent Lindon, Clotilde Mollet. In concorso.
Ipocrisie, veleni, sopraffazioni, vizi segreti. La gretta vita di una piccola città di provincia di inizio Novecento vista con gli occhi di una giovane serva, bella e astuta. Un ritratto in nero firmato da quel regista bravo e sottovalutato (in Italia) che è Benoît Jacquot. Molto di più del solito period movie. Voto 7+
Tra le cose davvero importanti del concorso che poi a oggi, domenica 8, non sono poi tante. Eppure accolto con glaciale sufficienza dalla platea-stampa international, neanche un applauso, e i commenti orecchiati all’uscita eran del genere: ma in fondo è un film in costume, un prodotto veterotelevisivo, e via così liquidando. Invece, Benoît Jacquot, autore regolarmente sottovalutato e mal capito soprattutto dagli italiani (Les adieux à la reine non è mai arrivato nelle nostre sale, Tre cuori lo scorso settembre a Veezia è stato maltrattato come un film sentimentaloide da sciampiste) realizza invece un ritratto crudele, freddo, adeguatamente cinico di un microcosmo – siamo nella Normandia del primo Novecento – dove ipocrisia, grettezza, inganno, avidità, manipolazione, oppressione, e comportamenti perversi, regnano e si ramificano al di sotto della scorza perbene. Da un romanzo di Octave Mirbeau che mica per niente era già stato portato in cinema negli anni Sessanta dall’anarchuco e iconoclasta Buñuel con il titolo in Italia di Diario di una cameriera. Là c’era Jeanne Moreau, qui c’è la nuova diva del cinema francese Léa Seydoux nel ruolo centrale di Célestine, ragazza nata povera e dunque destinata fare la serva. Non così docile, non così prona ai voleri dei suoi padroni. Con una fama di inisciplinata, di testacalda, e pure peggio. Sicché la sua chiamiamola così agente non può che piazzarla, essendosi Célestine bruciata la prestigiosa piazza parigina (e poi scopriremo come e perché), là nella provincia normanna. Da una coppia di maturi coniugi enrambi, pur se diversamente, tremendi, lui un vecchio lubrico tarato col vizio di allungare le mani sulle carni delle serve, lei sadica nel prosciugare le energie di chi le sta sotto e sulle palle con ordini insensati. Un ambientino di perfetta stronzaggine borghese padronale d’ottocento. Con in più un torvo uomo tuttofare che spaccia in città libelli antisemiti (siamo ai tempi dell’affaire Dreyfus, e lui è Vincent Lindon, come sempre bravissimo) e un’altra serva, pure lei con un segreto. Una casa piena di mostri, ecco. Con vicini altrettanto mostri. Un quadro nerissimo di vizi privati e scarse pubbliche virtù che Jacquot, senza certo la rabbia bunueliana (oggi quella vena anarcoide e visceralmente antiborghese è improponibile), ma con sguardo fermissimo, ci mostra pezzo dopo pezzo, nequizia dopo nequizia. Ci sarà una bambina stuprata e uccisa nel bosco, ci sarà un furto di argenteria, ci sarà un marito che anziché dolersi della moglie morta se ne compiacerà. Intanto Célestine ricorda quand’era a servizio da un giovane tubercolotico e dalla nonna sua, e di come lo aiutò a trapassare in piacevolezza, facendo l’amore con lui. Non è un’immorale, Célestine, ma è una serva scaltra, e troverà la strada per tirarsi fuori dalla miseria e diventare una signora rispettabile con un po’ d’argent. Altro che period-movie da domenica pomeriggio. Questa è una delle più lucide e implacabili storie che siano mai state scritte (e filmate) sulle relazioni contorte tra servi e padroni, anticipanddo parecchio il teatro della crudeltà di Genet sul tema. Uno dei migliori film della Berlinale, e speriamo che la giuria ne tenga conto. Léa Seydoux, mica da oggi una delle mie pereferite, mette a segno l’ennesimo colpo della sua carriera.
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