Mr. Holmes, di Bill Condon. Con Ian McKellen, Laura Linney, Milo Parker. Uno Sherlock Holmes 93enne ritiratosi in campagna ad allevare api, e assai critico e revisionista verso il proprio mito (“S’è inventato tutto Watson!”). Idea caruccia, solo che il film è di una noia insostenibile, e non basta McKellen a salvarlo. Voto 4
Avevamo già avuto in cinema uno Sherlock Holmes cocainomane, uno adolescente, uno mi sembra anche omosessuale, adesso ci tocca quello quasi centenario. In uno di quei furbi film tratti da un furbo bestseller con sapore forte di britishness che a certa nostra critica paion sempre degli esempi di cinema sofisticato, witty, ‘all’inglese’. Invece, che noia che barba, e cheppalle, questo Mr. Holmes. Diretto da Bill Condon (Demoni e dei, Kinsey e qualche Twilight), americano che si finge all’occasione più britannico dei britannici, è uno dei film meno interessanti visti qui a Berlino e non si capisce che ci faccia in concorso. Sì, certo, c’è Ian McKellen, che stavolta si contiene rispetto ai gigionismi alla Gandalf e offre la solita ‘grande interpretazione’ garantita, ma mica basta. Senza mai un climax, senza una svolta minimamente avvincente, la piattezza in forma di period movie (siamo tra anni Trenta e Quaranta) servita nei debiti e impeccabili costumi e nelle tazze da té del servizio buono. Che per avere un brivido bisogna aspettare un attacco di api, anzi di vespe (la differenza è fondamentale e nel film ha la sua importanza). A 93 anni Holmes si è ritirato nel countryside (Sussex per la precisione) ad allevare api. Lo assiste una governante-badante con un figlioletto assai sveglio che al signor Holmes, e ai suoi alveari, molto si è affezionato. Sherlock fa dell’autorevisionismo, sostenendo che la sua immagine pubblica non gli corrisponde ed è stata in realtà messa a punto dal furbo dottor Watson per fare soldi con i libri. Che molti dei casi più famosi in realtà sono stati distorti e apparecchiati a uso del publico sempre dal solito Holmes. Non ha mai fumato la pipa e mai portato quell’orrido berrettaccio. Lo invitano nel Giappone del dopo-Hiroshima per via della conoscenza anteguerra con un galantuomo e gentiluomo nipponico. E ci spiega come sia andato davvero il caso della misteriosa signora Ann Kelmot, romanzato in tutt’altro modo. Tutto qui. Non c’è altro. Quasi due ore di insostenibile noia. Ma alle sciure della critica sarà piaciuto molto, scommetto.
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