Berlinale 2015. EL BOTÓN DE NACÁR (recensione) è tra i favoriti ai premi, ma a me non è piaciuto

El botón de nacár (Il bottone di perla) di Patricio Guzmán. Documentario. Concorso.201511107_5Tutto è acqua. Il cileno Patricio Guzman ci mostra i ghiacciai della terra del fuoco, le gocce chiuse nei cristalli dell’Atacama, ma anche i popoli indios delle canoee sterminati dagli europei e il mare-tomba dei desaparecidos ai tempi di Pinochet. Ma questo viaggio per analogie e associazione attraverso acqua e acque suona spesso artificioso e pretestuoso. E se si voleva ricordare le pagine nere della storia cilena era proprio necessario prenderla così alla lontana? Voto 5201511107_1Se ne parla come uno di vertici del concorso, come di uno dei premiabili. Il wourd-of-mouth è strafavorevole, eppure potrò dire che ha me non è piaciuto per niente questo Il bottone di madreperla? Del rispettato cileno Patricio Guzmán, già autore di un film che a Venezia qualche anno fa folgorò parecchi dei nostri critici (io non c’ero, non posso dire). In forma di documentario – una forma ormai sempre più ibrida e meticciata e ambigua – Guzmán in El botón de nacár ci racconta parecchie cose interessanti, alcune di massima importanza, senza farci capire però quale davvero sia il focus della sua narrazione. Sembrerebbe l’acqua l’oggetto del suo discorso, il suo feticcio, il campo di indagine di questo suo viaggio per immagini e parole. Si parte con un cristallo recuperato dal deserto salino dell’Atacama contenente una goccia d’acqua, si prosegue col racconto dei meteroiti che probabilmente hanno portato l’acqua sul pianeta terra, e subito dopo eccoci nel Cile estremo Sud, Terra del fuoco, tra i ghiacci che sprofondano nel mare, acqua nell’acqua. Guzmán ci tiene a informarci di come il suo paese abbia la più lunga costa marina del mondo (sarà vero? e il Canada? e gli Usa? e il Brasile?), eppure il Cile ha sempre guardato verso l’interno, verso la terra, diffidando di quell’elemento liquido e instabile. Navigatori veri sono stati solo gli indios di alcune etnie del Sud che con le loro canoe attraversavano anche perigliosi bracci di mare, Capo Horn compreso. Fin qui il film mantiene, pur nel suo divagare, una qualche coerenza. Quando però si comincia a ricostruire, anche attraverso testimoni, l’uccisione della cultura dei popoli nativi si entra in un altro ordine di discorso, in un altro film. Nobile, necessario anche, ma altro. Che c’entra mai tutto quel parlare, anche poetizzando con una qualche goffaggine, sull’acqua? Dallo sterminio del popolo della canoe a un altro massacro per acqua il passaggio è veloce. Siamo al tempo di Pinochet, degli oppositori fatti sparire in vari modi, migliaia tramortiti nelle prigioni con iniezioni di pentothal, poi impacchettati incoscienti ma ancora vivi, e ancora vivi lanciati da elicotteri e aerei in mare appesantiti con pezzi di vecchi binari. Atroce. E la ricostruzione di come la catena di montaggio della sparizione funzionava è agghiacciante. Ora, impossibile non turbarsi e indignarsi di fronte a queste scene. Mi chiedo solo: se si voleva ricordare il genocidio degli indios del sud e l’eliminazione degli oppositori del regime era proprio il caso di partire dai meteoriti portatori d’acqua? Dalle immagini da National Geographic glamourizzato dei ghiacciai? Di parlare di memoria e voce dell’acqua, in una poeticismo cattivo che rischia di rovinare la nobiltà dell’impresa? Forse Guzmán sceglie una strada non convenzionale sulla scia di quanto ha genialmente sperimentato lo Joshua Oppenheimer di The Act of Killing, mescolando narrazioni e registri diversi. Ma qui il procedere per associazioni suona spesso artificioso, oltre che fastidioso e liricizzante nel senso peggiore, e la zavorra finisce con l’essere davvero troppa rispetto alla polpa. Ma un premio se lo porterà a casa di sicuro, vedrete.

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