
Roger Ebert e, sullo sfondo, Gene Siskel
Life Itself, un docufilm di Steve James. Con e su Roger Ebert. Produttori esecutivi Martin Scorsese e Steven Zaillian. Per sapere dove è proiettato (e come eventualmente proiettarlo) contattare la distribuzione I Wonder Pictures. A Milano il cinema Beltrade – tel. 02.26820592 – lo proietta su richiesta, purché si raggiunga la quota di 20 persone.

Ebert con la moglie Chaz

Ebert con Gene Siskel in una delle loro trasmissioni tv
Ritratto di Roger Ebert, il critico di cinema americano più influente di sempre scomparso giusto un anno fa. Famoso come una popstar, rispettato e temuto per la sua imparzialità e autonomia di giudizio. Una vita pubblica e privata straordinaria, con gli ultimi anni segnati da una malattia cui lui coraggiosamente resiste, che lui non asconde e anzi esibisce davanti alla macchina da presa. Finalmente un biopic non agiografico. Voto 7 e mezzo
La vita di un critico cinematografico può essere un’avventura straordinaria, non solo una mesta sequenza di sedute al computer (e, prima ancora, alla macchina da scrivere) a battere forsennatamente recensioni, non solo visite catacombali e zombesche a quegli antri bui che sono le sale di proiezione. Se stentate a crederci, vedetevi (se potete) questo Life Itself, che è il biopic, e più che il biopic, dell’uomo che ha reso negli Stati Uniti la cinerecensione un consumo culturale di massa, che ha democratizzato ed esteso a strati sociali e antropologici prima irraggiungibili la riflessione e il pensiero intorno a quegli strani oggetti chiamati film. Molte cose di Roger Ebert le sapevo prima di guardarmi Life Itself, moltissime proprio no, e son state vere rivelazioni. Che storia la sua, signori. Nato in una famiglia working class – il padre era elettricista – nella città di Urbana, Illinois, Roger punta tutto precosissimamente sulla sua curiosità, sul sapere, sull’amore per la cultura come strumenti di autorealizzazione e di scoperta e, ebbene sì, di ascesa sociale. Quale ragazzo oggi lo farebbe mai? Scrive sul giornale della scuola, sostiene le lotte democratiche e quelle di emancipazione degli afro-americani, a 21 anni dirige nella sua Urbana un quasi quotidiano – 5 uscite alla settimane – ed ha le palle di bloccare le rotative quando, nel giorno dell’assassinio di Kennedy a Dallas, si rende conto di una pagina non consona alla tragedia. Emigrerà a Chicago per l’università, e di lì a poco comincerà a scrivere per il Chicago Sun-Times, il più popolare dei quotidiani della città, il più amato e comprato e letto e rispettato da chi lavora duro. Gli chiederanno, gli imporranno (felice imposizione), di scrivere recensioni di film, utilizzando uno pseudonimo, come usava allora, sotto il quale si alternavano diversi e tutti anonimi scriventi. Ma non ci vorrà molto perché quella pagina diventi tutta sua, con la sua firma. E Roger Ebert diventa Roger Ebert. Se Pauline Kael del New Yorker è la guru della critica cinematografica d’élite a uso dei salotti buoni, Ebert è colui che riesce a fondare, in un campo tanto arduo, una scrittura pop(olare) insieme leggibile e rigorosa, agile e densa, in grado di influenzare e anche plasmare i gusti di una sterminata middle class in cerca di riscatti culturali. Diventerà via via più famoso e rispettato, fino a vincere, primo critico cinematografico, il premio Pulitzer. Sempre mantenendo un’assoluta e cristallina indipendenza di giudizio e la massima libertà d’azione, sempre tenendosi lontano dai poteri forti del cinema per non farsene condizionare. La popolarità enorme e la consacrazione arriveranno negli anni Settanta con una trasmissione televisiva di cinecritica destinata a durare a lungo e a imprimersi nel conscio e nell’inconscio collettivi.
Il film di Steve James (regista di cui RE aveva molto amato il docufilm Hoop Dreams) si muove sulla traccia dell’autobiobiografia scritta da Ebert, prendendone anche il titolo, e però aggiungendovi molti interventi nuovi e recenti dello stesso protagonista e di persone che gli son state vicine o hanno intersecato la sua parabola professionale. Il miracolo, così raro nei documentari biografici, è che qui si riesce a evitare, pur nella massima simpatia ed empatia per Ebert, pur stando indiscutibilmente dalla sua parte, il rischio dell’agiografia, del santino. Anche perché è lo stesso protagonista e soggetto-oggetto del racconto, il Grande Critico Americano, a essere (a essere stato: RE è morto il 4 aprile 2013, e tra non molto sarà giusto il primo anniversario) costitutivamente, intimamente irriducibile a ogni possibile canonizzazione e beatificazione, in vita come post-mortem. Troppo libero, troppo poco convenzionale il tragitto di Ebert perché se ne possa trarre un ritratto edulcorato e quieto, da offrire alla venerazione dei devoti. Roger Ebert il fuori-rango che, come ricordano i suoi colleghi dei primi anni al Chicago Sun-Times, aveva pessimi gusti in fatto di donne “scegliendo le brutte o le cacciatrici di patrimoni”. Roger Ebert che, come lui stesso racconta, cade nell’alcolismo e se ne tira fuori molto tempo dopo grazie agli Alcolisti Anonimi. Roger Ebert cui non frega niente dei soldi e delle offerte che gli arrivano dopo il Pulitzer e resta fedele al Chicago Sun-Times fino alla morte (ed è una delle cose più incredibili della sua incredibile vita, questa incrollabile lealtà al giornale della working class della sua giovinezza). Roger Ebert che, da genuino spirito democratico, non esita a sposare, contro i pregiudizi sociali e le convenzioni dominanti, una signora nero-americana conosciuta (è lei a rivelarlo nel film) alle sedute degli Alcolisti Anonimi. Chaz, questo il nome della signora Ebert, con i suoi figli e nipoti creerà intorno a Roger quella famiglia che lui non era mai riuscito ad avere. Resteranno legati fino all’ultimo, ed è lei nel film a ricordarci e rievocarci gli ultimi anni del critico, la sua malattia invalidante, e anche la sua sorridente e ostinata resistenza, il suo non arrendersi, il suo lavorare al computer a scrivere, ancora e ancora e sempre, di film, fino all’ultimo giorno. Fino a scrivere lui stesso sul suo sito l’addio ai lettori. Che figura grande, di un’enormità che il suo fisico – 140 chili di stazza – rendeva così evidente e palpabile, in una sovrapposizione-identificazione tra dentro e fuori, anima e corpo. Uno strapotere fisico che lascerà il posto, quando la malattia verrà, a un uomo fragile e minuto e però mai domo, capace di ironizzare sul proprio stato. È la parte che più turba di Life Itself, commovente e insieme difficile da sostenere, questa della malattia volutamente esibita da Ebert di fronte alla macchina da presa, dove niente è celato e tutto è mostrato, come se lui stesso facesse del proprio corpo martoriato spettacolo e lo offrisse allo spettatore, trasformando – coerentemente con quel che era sempre stato – la sua vita declinante e la sua morte in film. Il cinema come naturale e inevitabile destino. La malattia comincia nel 2002 con una diagnosi di tumore alla tiroide e alle ghiandole salivari. Un intervento sembra sistemare tutto, ma qualche anno dopo la mandibola sinistra verrà intaccata, e dovrà essere asportata. Incomincia la fase estrema che però le terapie, il coraggio di Ebert, la cura e la vicinanza di Chaz, prolungheranno, consentendogli di continuare a lavorare. Sul cinema, per il cinema, per i lettori. Il film non tace niente, Ebert si fa riprendere anche quando una cannula aspiratrice gli viene infilata in quella cavità lasciata sulla sua faccia dalla mandibola mancante. Non ricordo al cinema niente di simile, ed è qualcosa di mai visto né sentito pure il racconto minuzioso dei suoi ultimi momenti fatto dalla moglie. La morte-spettacolo, la morte senza più veli, e mi chiedo, senza trovare risposte, quale sia il senso di tutto questo. Roger Ebert era rimasto sconvolto e forse anche offeso da come se n’era andato Gene Siskel, il critico cinematografico del Chicago Tribune (il quotidiano borghese rivale del proletario Chicago Sun-Times per cui Roger lavorava) con cui aveva diviso anni e anni della sua leggendaria trasmissione televisiva. Quella che li aveva imposti alla enorme platea americana, anche delle provincia più profonda, trasformandoli in popstar: un programma nel quale Roger e Gene, a volte concordando e molto spesso scontrandosi e baruffando, davano i propri giudizi sui film della settimana col pollice verso o alzato, come in un’arena gladiatoria. Gene, il compagno di quelle avventure catodiche, si ammala poco più che cinquantenne di tumore al cervello, e decide di non rivelarlo a nessuno al di fuori della cerchia familiare. Quando se ne va, Roger resta sconvolto non solo dalla sua precoce morte, ma anche del fatto che Gene lo avesse tenuto all’oscuro, e dichiara che, qualora a lui succedesse qualcosa del genere, non nasconderà, non si nasconderà. E così sarà, quando la malattia arriva, come Life Itself testimonia. Il film è tutto questo e molto altro, consegnandoci una storia davvero bigger than life, così profondissimamente americana nella sua fede nella democrazia e nei valori dell’impegno individuale, nel lavoro come missione terrena da compiere. Di Roger Ebert parlano in tanti, compreso il qui produttore Martin Scorsese, elogiato da Ebert come uno dei più grandi autori americani per Toro scatenato, ma bocciato poi per Il colore dei soldi, a tesimonianza della sua lucidità e imparzialità. Parlano autori del nuovo cinema Usa come il Ramin Bahrani di Man Push Cart e 99 Homes e l’Ava DuVernay di Selma, da lui incoraggiati e sostenuti agli esordi. Se c’è qualcosa che non funziona in questo gran bel film è il troppo insistere sui suoi ultimi giorni con una convenzionalità che forse lui non avrebbe troppo gradito. E chissà come ne avrebbe scritto.