Latin Lover, un film di Cristina Comencini. Sceneggiatura di Cristina Comencini e Giulia Calenda. Con Virna Lisi, Marisa Paredes, Angela Finocchiaro, Valeria Bruni Tedeschi, Candela Pena, Pilha Viitala, Nadeah Miranda, Francesco Scianna, Neri Marcorè, Claudio Gioè, Lluis Homar, Jordi Molla, Toni Bertorelli. Al cinema da giovedì 19 marzo.
Chi era davvero Saverio Crispo, grande attore della migliore stagione del nostro cinema, divo della commedia all’italiana, degli spaghetti-western, del cinema impegnato? A dieci anni dalla morte si riunisce il suo clan familiare, le due mogli, le loro figlie, le altre avute da storie extramatrimoniali. Baruffe, bisticci, rinfacci e un segreto occultato per una vita. Un dramedy familiare simile ad altri Comencini-movies. Il meglio di Latin Lover è quando si ricostruisce la filmografia di Crispo simulando certi classici del passato, da Il sorpasso all’Armata Brancaleone. Allora sì che è una goduria. Una regale Virna Lisi alla sua ultima interpretazione. Voto 5 meno
C’è del buono e del pessimo, in questo ennesimo film in cui Cristina Comencini va a ravanare negli angoli bui di famiglie complicate e sconclusionate, autoreplicando con qualche necessaria variazione un format già messo a punto ai tempi di La bestia nel cuore (nomination Oscar!) e Il più bel giorno della mia vita. Il buono è prima di tutto la presenza di Virna Lisi, qui al suo ultimo film, luminosa e regale quale comprensiva e insieme ferrea matriarca di un clan parentale a prevalenza femminile. È scomparsa, Virna Lisi, a riprese appena ultimate e giustamente Latin Lover le è stato dedicato da Cristina Comencini, atto dovuto per un’attrice grandissima che ha percorso decadi e decadi del nostro cinema senza mai metterla giù dura e tirarsela da diva (e avrebbe potuto farlo, eccome se avrebbe potuto). Sta nella colonna con il segno più anche l’idea narrativa di partenza, bella davvero, che in altre mani avrebbe potuto dar vita a un film memorabile, e qui invece ci si deve accontentare, e rimpiangere quel che Latin Lover con tali premesse sarebbe potuto essere. L’idea, meravigliosa, è di far ruotare l’intera narrazione intorno alla figura di Saverio Crispo, un grande attore della migliore stagione del nostro cinema, quella tra primi anni Sessanta e Settanta. Che, pur defunto da dieci anni, incombe su – e ancora condiziona – vite e destini e pene e dolori e rimpianti delle sue due mogli, la prima italiana, la seconda spagnola, e le loro figlie, e pure sulle altre figlie nate da storie extramatrimoniali, una svedese, una americana e una francese. Più, forse, un’altra pugliese mai riconosciuta, nata da un amore ancillare durante i soggiorni e gli ozi nella stupendissima villa di Crispo. Un gineceo, un harem, che non può non ricordarci quello dell’Otto e mezzo felliniano. Ed è lì alla villa, credo nel Salento (si vedono gagliardetti comunali con la scritta San Vito dei Normanni e edicole con La Gazzetta del Mezzogiorno: se ne deduce che ancora una volta la Apulia Film Commission ha fatto il suo lavoro) che a una decade giusta dai funerali del Grande Attore, si riuniscono tutte le donne (o quasi) di Saverio. In testa le due mogli, che van d’accordissimo, più la figlia maggiore italiana devota custode della memoria dell’illustre genitore, la spagnola con il marito voglioso di cornificarla, la francese ansiosa di togliersi di dosso quell’etichetta di figlia per caso (una pigolante Valeria Bruni Tedeschi quale nevroticissima attrice di film che nessuno va a vedere, con tre figli avuti da tre uomini diversi, compreso un giamaicano), la più giovane, nata in Svezia durante una parentesi diciamo così bergmaniana dell’attore. Manca all’appello l’americana, riconosciuta solo dopo il test del dna, di cui Saverio non ha mai voluto sapere e che adesso pare avviata a una brillante carriera di cantante. Uomini pochi o niente, e, quando ci sono, son minoritari, ininfluenti. Inciampi. Disturbi. Il fidanzato clandestino da vent’anni della figlia italiana, il marito femminiere incallito dell’iberica Segunda, pronto a fiondarsi sulla svedesina Solveig. Tra chiacchiere e ricordi del passato, rimpianti e e rinfacci e ferite psicologiche mai rimarginate, il clan si prepara alla celebrazione in pompa magna del defunto, cerimonia pubblica con le autorità, quindi proiezione di un film documentario che raccoglie il meglio delle sue interpretazioni. A far vacillare i precarissimi equilibri interni e a far esplodere contraddizioni e segreti sarà Pedro, stuntman spagnolo, a lungo controfigura di Saverio Crispo sui set dei numerosi spaghetti western girati ad Almeria. Ricompare non invitato a pochi giorni dalla festa, appena tollerato dalla moglie italiana e odiato apertamente da quella spagnola, rivendicando il diritto a esserci nella gran serata. Lo spettatore sgama subito il segreto che Pedro si porta dietro, ben prima che le cieche signore e signorine della famiglia aprano faticosamente e pure dolorosamente gli occhi.
Ora, tutta questa parte di segreti e bugie e rivelazioni, e scaramucce tra figlie di diverse donne e diversi letti, è davvero poca cosa. Passaggi e snodi drammaturgici telefonatissimi, dialoghi non impeccabili, sceneggiatura vagolante (ma come si fa a far dire a un articolo del 1971 “gay rumors”, che la parola gay era appena appena stanta inventata di là dell’Atlantico?), un’aria da commedia un po’ ciabattona e qualunque, attori che se la devono cavare, e c’è chi riesce (Virna Lisa e Marisa Paredes) e chi per niente. Che poi, scusate, perché Angela Finocchiaro deve sempre avere quella calata lombarda anche se fa la figlia cresciuta in Puglia? Se il film merita la visione, è solo per come ricostruisce e ci mostra la figura di Vincenzo Crispo, il mitologico patriarca e maschio-padrone da cui il ramificato clan è tuttora soggiogato. Figura bigger than life, affamato di successo e esperienze professionali come di plurime avventure sessuali, per esorcizzare il declino, per soddisfare il proprio narcisismo, per ottemperare all’immagine che il pubblico femminile s’era fatto di lui. ‘Come tu mi vuoi’. Naturalmente le scritte di coda ci avvertono che Saverio Crispo non è ispirato a nessun personaggio realmente vissuto, e così difatti è. Però qua e là riaffiorano delle analogie, delle tracce di gente come Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, tutti attori del nostro cinema con complicate stratificazioni familiari e figli e figlie avuti da più signore e matrimoni. E si pensa anche alla parabola esemplare di Vittorio De Sica, diviso tra due famiglia, una con la moglie italiana, l’altra con la moglie di origine spagnola. Ma Latin Lover non è un film a chiave, inutile andare a cercare indizi per illuminare lati in ombra di una qualche esistenza illustre. La parte più bella, e anche quella che potrebbe fare di questo film della Comencini un buon successo all’estero dove ancora adorano il nostro grande cinema passato, è quando con Francesco Scianna – che, con quell’aria seducente, ribalda e maliarda da maschio mediterraneo, è un ottimo e credibile grand’attore anni Sessanta – si ricostruiscono e ripropongono pezzi della filmografia di Crispo. Il gioco è riconoscere il maggior numero di rimandi e clin-d’oeils, di film citati e omaggiati. E allora: Il sorpasso, tutti gli spaghetti western, Ieri, oggi e domani, Un uomo, una donna, Divorzio all’italiana, L’armata Brancaleone, La classe operaia va in paradiso. Il che, per un cinefilo, è una goduria. La sola che Latin Lover ci concede.
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