The Cut di Fatih Akin. Con Tahar Rahim. Presentato in concorso a Venezia 2014.
Un regista tedesco di origine turca affronta quello che in Turchia resta il tabù di tutti i tabù, il genocidio degli armeni nei primi anni del Novecento. Cosa che lo esporrà di sicuro a molte critiche e polemiche. E lo fa atraverso un romanzo popolare che non risparmia le astuzie retoriche e il mélo più sfrenato. Un giovane uomo armeno sopravvive al massacro, ma perde le tracce della moglie e delle due figlie. Comincerà a cercarle, in un lungo viaggio che lo porterà dalla Siria e dall’Anatolia fino a Cuba e agli Stati Uniti. Voto 4 e mezzo
Un film sul genocidio degli armeni lo si aspettava da tempo immemorabile. È arrivato, eccolo, ed è importante che ci sia, che lo vedano in molti, che circoli il più possibile. Ancora più impotante che a girarlo sia stato Fatih Akin, tedesco di origine turca, cosa che di sicuro lo esporrà a parecchie critiche dalle parti del Bosforo e dell’Anatolia, dove il massacro è ancora un tabù nazionale. Ecco, ho fatto la doverosa premessa. Continuo dicendo invece che The Cut, che molto prometteva, ha parecchio deluso. Un lungo racconto tra l’epico e il melodrammatcio centrato su un giovane armeno che miracolosamente sopravvive, ma che perde le tracce della moglie e delle due figlie gemelle. A guerra finita comincerà a cercarle, in un viaggio infinito tra Siria e Turchia, e poi a Cuba e negli Stati Uniti. Un romanzo popolare in cui Akin pigia troppo sul mélo senza risparmiarsi e risparmiarci nulla. Comprese la moglie e le figlie che gli compaiono in sogno (e in sovrimpressione) nei momenti più duri per incoraggiarlo a resistere resistere resistere. Un prodotto che mi pare inevitabilmente destinato alla platea televisiva. Dal telentuoso Fatih ci si aspettava molto, molto di più. Protagonista il Tahar Rahim lanciato da Jacques Audiard in Un prophète e visto poi in Il passato di Asghar Farhadi. E che qui si porta da solo sulle spalle il peso del film, che non è poco.
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