Tempo instabile con probabili schiarite, un film di Marco Pontecotvo. Con Luca Zingaretti, Lillo Petrolo, Carolina Crescentini, John Turturro, Lorenza Indovina.
Operai di una cooperativa sull’orlo della chiusura scoprono in cortile una vena petrolifera. Guai risolti? Mica tanto. Una trovata narrativa che sa di Hollywood classica, solo che qui non ci sono Frank Capra o Billy Wilder. Tempi lentissimi, sovrabbondanza di cliché, caratteri e ambienti che sembrano fissati in un’Italia fuori dal tempo. Più un Turturro insostenibile. Voto 4
Uno dei molti tentativi di rinfrescare l’esangue commedia italiana, quest’anno punita da un pubblico sempre più distante e disinteressato, e inabissatasi in un flop via l’altro. Ma se cose come Se Dio vuole, uscito questo weekend, lasciano sperare in una possibile ripresa, Tempo instabile con probabili schiarite (ma come si fa a tirar fuori un titolo così balordo e complicato?) fa, semplicemente, cascare le braccia lanciando cupi presagi su quello che fu il genere principe e più popolare del nostro cinema. Film fondato su un’idea narrativa di partenza – povera gente che si ritrova di colpo ricca di petrolio – da vecchio cinema americano alla Frank Capra, che magari da quelle parti potrebbe ancora funzionare ma che qui, nel Romagna-Marche dove si ambienta Tempo instabile, suona improbabile e artificiosa. Con l’aggravante di una sceneggiatura di scarse invenzioni nello sviluppo narrativo, con personaggi stereotipati e ancorati a vetusti impegni politico-marxisti di qualche decennio fa, il tutto in una piccola città di provincia che pare fuori da ogni mondo oggi possibile e conosciuto ed eternamente fissata nei riti immarcescibili del passeggio, del caffè, del cicaleccio. E una regia di Marco Pontecorvo, sì, figlio di Gillo, che allenta e dilata oltre ogni sopportabilità i ritmi. Che a un certo punto vien voglia di mollare tutto e andare a riguardarsi e ripassarsi i classici di Lubitsch, Billy Wilder, Howard Hawks con quegli indiavolati dialoghi ping-pong.
In una cooperativa che produce divani (ma ne esistono ancora di cooperative così o trovan posto solo nelle fantasie degli sceneggiatori italiani?) scoppia la solita crisi da concorrenza global-cinese. Sicché i soci se la devon vedere con lo spettro della chiusura e della perdita del lavoro, e sono, soprattutto, battibecchi e bisticci continui tra i due amicissimi-nemici Ermanno e Giacomo. Il primo operaio e operaista tutto d’un pezzo rimasto fermo alle mitologie contestative anni Settanta, il secondo che in cooperativa si occupa delle vendite e dunque ormai adattato alle logiche e illogiche pazze del mercato, e con una visione imprenditorial-manageriale. Tutti e due hanno un figlio maschio, il primo ha una moglie, il secondo no, essendo divorziato da un bel po’ con una tedesca che l’ha mollato e se n’è tornata al paese suo. Succede che per caso scoprono che lì, nel cortile della fabbrica, ci sta il petrolio, cose che capitavano nei vecchi film, o anche in film recenti come Il petroliere, nel Texas, mica tra San Marino e Pesaro-Rimini come qui, ma tant’è. Che fare? Giacomo il manager spinge per l’idea di investirci i soldi, in quel petrolio, di tentare la sfida, la scommessa, Ermanno l’operaio si oppone ( e si oppone il comitato ambientalista immancabile in casi del genere, e non toccate là e non toccate qui, e non scavate, e preservate l’alberello secolare ecc. ecc., secondo il repertorio antindustrialista che ben conosciamo). Vincono Giacomo e la sua visione imprenditoriale. Tant’è che si contatta un super ingegnere americano versatissimo in pozzi petroliferi e ricerca e sfruttamento delle vene del prezioso liquido, si va a Roma in pellegrinaggio da un ministero all’altro, da uno sportello all’altro, per ottenere dall’ottusa burocrazia i permessi necessari. Finché si fa avanti una multinazionale disposta a rilevare l’area in cambio di una paccata di soldi. Che fare? Incassare l’offerta, dividersela tra i soci, o proseguire in proprio il sogno di diventare petrolieri? Per la prima opta il manageriale Giacomo, per la seconda – in nome dell’autonomia operaia e del cooperativismo e del capitalismo diffuso verso il basso – propende il sempre rivoluzionario Ermanno (e fa niente se prima era contrario al petrolio, e invece adesso ne è il massimo sostenitore: siamo in uno script all’italiana). Non dico come si sviluppa la faccenda, e come va a finire, dico però che a un certo punto si sente profumo di stangata. La trama nella sua ossatura funziona anche, e avrebbe potuto dare il via a una commedia di un qualche divertimento. Ma per i motivi di cui sopra – sovrabbondanza di cliché, ritmi soporiferi, caratteri fermi a qualche decennio fa della storia e cronaca italiane, contesto ambientale come separato dal mondo – Tempo instabile si avvita e implode. Peccato, è andata persa l’occasione di raccontare un’Italia minore, cioè l’Italia media e vera, nella sua trasformazione da economia manifatturiera a non si sa bene cosa. E gli sconquassi sociali e antropologici che la crisi induce son qui attenuati, dolcificati e depotenziati di ogni carica davvero disturbante. Gli attori fan quello che possono, e però John Turtutto, come spesso succede quando pretende di far l’americano che ama l’Italia e vuol parlare italiano – è insopportabile, e già si teme per il nuovo Nanni Moretti dov’è nel cast (lunedì c’è l’anteprima, e si vedrà). Lillo appare nei crediti con il cognome che non gli conoscevamo, Petrolo, e suona abbastanza buffo in un film così.
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